martedì 12 ottobre 2010

Show Must Go Home







Queste le parole dello zio di una delle quattro vittime di Herat proferite, probabilmente urlate, al Ministro della Difesa Ignazio La Russa, durante l'arrivo ieri a Roma delle salme dei soldati rimasti uccisi nell'agguato.
«I parenti in queste occasioni hanno diritto a qualsiasi reazione emotiva, sia quella di quello zio che quelle affettuose dimostrate da altri parenti anche oggi»
Questa, invece, è stata la risposta a freddo davanti ai giornalisti del suddetto Ministro.

Avrei anche potuto scrivere soltanto e semplicemente il titolo con il commento dello zio e la foto dei feretri dei caduti, ma poi correvo il rischio che passasse anche la mia per una "reazione emotiva".

E mi domando perché un invito a riflettere debba essere calcolato come una "reazione emotiva". Perché il dolore della perdita di una proprio caro debba in qualche modo affievolire la forza di poche parole così incisive e, soprattutto, lecite.
Lecite come un'opinione. Un'opinione talmente forte e condivisibile (e difatti condivisa) da non appartenere soltanto a chi è legato in maniera affettiva alle vittime della tragedia ma da quanti sono direttamente interessati come Nazione. E non solo quando capitano queste stragi, bensì ogni giorno possa capitare a chiunque di noi di riflettere per un attimo sui soldati nostri connazionali, ma anche di altri Paesi, in missione in territori tanto lontani a volte non soltanto geograficamente da noi.
Che siano lì per estirpare un male comune internazionale quale il terrorismo è chiaro a tutti da tempo. Ma chi e in che modo e sta coordinando gli sforzi? Con quali obiettivi precisi e con quali risultati finora ottenuti? Con la collaborazione di chi e contro quali personaggi?
Se già dal 2001 era difficilmente comprensibile il concetto di missione armata di pace, ora che questa guerra sta riportando in patria più bare di soldati compianti che notizie di risultati tangibili, tutte queste domande sono ancora più lecite.
Come lecito rimane ammonire una carica istituzionale su ciò che sta accadendo. E non in quanto "reazione emotiva" ma perché sono richieste risposte o, meglio, fatti concreti che soddisfino le domande che molti si stanno ponendo da ormai diverso tempo e che acquistano sempre più voce ogni qualvolta ci scappi il morto.
Perché è possibile unire la riflessione alla sofferenza senza che l'una intacchi l'altra e viceversa.

Poi possono venire fuori tutte le discussioni possibili sul fatto che chi ci lascia la vita sia un martire, un eroe oppure no; che le truppe vengono lautamente stipendiate; che queste sono composte da professionisti che sanno dove vanno e non da forze di leva e così discorrendo.
Persino se sia il caso di equipaggiare i velivoli di ordigni può essere discusso nelle sedi più appropriate, anche se fa specie sentir parlare di questioni del genere dopo nove (9) anni di missione e a pochi mesi dall'inizio del ritiro delle truppe, in programma secondo le parole del Ministro degli Esteri Frattini a partire dall'estate 2011 e che dovrebbe concludersi nel 2014.

L'importante è che chi di dovere riesca finalmente a fornire risposte alla sensazione di quei molti che avvertono il protrarsi di questo intervento militare in Afghanistan come qualcosa di spaesato, disorganizzato e meramente inerziale. Sensazioni che ricordano sinistramente quanto accaduto nel Viet-fottuto-nam.

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