venerdì 31 dicembre 2010

Dicembre, 2010, Italia

Bene, eccoci qui, anche quest'anno sta volgendo al termine: ma prima di strappare l'ultimo foglio dal calendario ci tenevo a dedicare un'ultimo pensiero al mio caro Paese.

Ancor prima che il nostro caro Presidente avrà preso la parola stasera mentre saremo alle prese con un baccalà marinato o il capitone fritto, noi già sapremo cosa ci hanno regalato questi dodici mesi appena trascorsi e già potremo indovinare cosa avranno in serbo per noi i prossimi dodici: niente.
Niente di nuovo, niente che cambi, niente che si rimetti a posto. Perché siamo ancora convinti che una terza persona singolare dai tratti eterei ed intangibili possa portare fortuna ad un disgraziato o maledire il più innocente degli uomini; o in alternativa che un solo uomo al comando possa risolvere i problemi di una Nazione intera, dopo essere fermo al palo dopo più di tre lustri.

Questo mese che sta per concludersi è sembrato così uguale agli altri che lo hanno preceduto e così rappresentativo di come tutto resti sempre ineffabilmente uguale da farci vivere l'ennesimo déjà vu collettivo.
Soltanto in questo dicembre abbiamo assistito ad un esecutivo che doveva cadere e non è caduto per un governo che non ha i numeri per governare e non governerà con una Corte Costituzionale che non si esprime perché teme influenze politiche quando dovrebbe essere il contrappeso principale del potere politico.

In precedenza abbiamo vissuto un intero anno di debito pubblico in aumento, di prodotto interno lordo a crescita praticamente nulla, di occupazione in calo e di una nuova generazione con un destino peggiore di quello dei loro padri scritto e controfirmato da una classe dirigente trenta, quaranta, cinquant'anni più anziana e decrepita di lei.

E ancora: un anno di sondaggi, un anno di promesse, un anno di spazzatura per le strade (non solo di Napoli) e in tivvù o sui giornali. Un anno di sbatti il mostro in prima pagina, un anno di figli di politici che entrano in consiglio comunale, un anno di parenti e amici assunti nell'azienda del comune, dal più grande d'Italia giù fino all'ultima comunità montana. Un anno di "Pompei è crollata un altra volta" "Guarda che la prima volta si trattò di un'eruzione" "No, no, c'è stato un altro crollo ieri", un anno di bunga bunga, un anno di (non solo per amor di par condicio) Letta jr in tivvù e dei suoi lettiani (l'ho ascoltata su TgLa7, ve lo giuro). Un anno di cucine a Montecarlo, un anno di programmi culinari a tutte le ore, un anno di Avetrana tra un programma culinario e l'altro. Un anno di plastici da Vespa, un anno di presentazioni del libro di Vespa con i politici accanto, un altro anno passato a chiedermi "ma i giornalisti non dovevano essere i nemici del Palazzo?". Un anno di editoriali di Minzolini, un anno di metodo boffo e di macchina del fango, un anno di Bocchino prima da una parte e poi dall'altra, boh. Un anno di studenti sui tetti dell'università, un anno di Bersani sui tetti dell'università, un anno di spazzacamini, insomma. Un anno che mi sono rotto le palle di ricordare, un anno che se lo vai a raccontare fuori di qui nemmeno ti credono, un anno che se gli cambi i nomi dei personaggi e lo racconti ai protagonisti non ti credono nemmeno loro. Un anno da dimenticare, un anno di cui avrò già dimenticato qualcosa scrivendo, un anno che sarà difficile fare peggio.
Ed un anno, il prossimo anno, in cui sono certo che ci riusciremo. A fare peggio, dico.

Buon 2011 a tutti.

martedì 28 dicembre 2010

L'Italia dei Favori

Durante questo dicembre l'Italia dei Valori si sta mostrando in tutta la sua semplicità per quello che è, forse anche dinanzi ai suoi più ciechi sostenitori e simpatizzanti, solitamente così solerti a voler ostinatamente aprire gli occhi altrui.
Qualcuno ha capito cos'ha detto?
Vietate e combattute le correnti interne, sbarrato qualsiasi accesso ad una leadership incontestata e incontestabile, il partito Di Pietro (rigorosamente con una sola "di" per sottolineare non solo l'appartenenza della cosa alla persona ma addirittura l'identificazione del tutto con un unico soltanto) è un partito monocratico e personalista tanto quanto il PdL. Con un punto di criticità in più non da poco.
Infatti, per quanto il berlusconismo abbia bisogno come l'aria di nemici che lo attacchino quotidianamente con ferocia per ricompattare puntualmente la propria fazione, Berlusconi senza Di Pietro può beatamente continuare a vivere politicamente. Viceversa, non potremmo dire altrettanto.
In tanti si sono domandati quale possa essere il futuro di Di Pietro e del suo partito successivamente ad un'uscita dalla scena romana di B. Nonostante i vari tentativi di rifarsi un volto politicamente più disteso ed esteso, l'ipotesi più probabile rimane tutt'oggi ancora la stessa: l'estinzione.
Tornando al presente, seguendo questa pista e calcando le orme più profonde della malafede, diremmo che il voto contrario alla sfiducia espresso alla Camera il 14/12 da quel manipolo di "fuoriusciti" dall'IdV non è stato poi così accidentale, ma necessario per garantire ancora un po' di ossigeno a Tonino l'abruzzese. Malelingue.

Ma anche se non stessero così le cose, c'è di certo che le responsabilità di Di Pietro sono tante e non da poco. La percentuale di ribaltonisti nel suo partito è stata la più alta del Parlamento: per chi dell'opposizione all'attuale premier ne ha fatto il punto primo ed ultimo del proprio programma è un risultato gravissimo, ma non inspiegabile.
Se da una parte c'è l'impossibilità di coltivare una classe politica adeguatamente preparata laddove tutto è già scritto, il leader è insostituibile e non c'è discussione interna; dall'altra abbiamo visto allungarsi fetida e maleodorante l'ombra di quella porcata della legge elettorale.
Se un parlamentare incerto della propria riconferma alla prossima tornata elettorale deve il suo scranno ad un segretario piuttosto che al popolo, quel parlamentare, al netto della propria integrità morale (che è comunque un gradino sotto quella del pedofilo, come sosteneva Woody Allen), preferirà andarsi a cercarsi un segretario che gli offra di più o, in mancanza di offerte adeguate, mantenere a galla un governo qualsiasi piuttosto che rinunciare al suo rimborso romano da 20.000 euro mensili esentasse più bonus.

Si è commentato da solo
Il voto di preferenza, pace all'anima sua, legava ogni politico al suo elettore non secondo un vincolo di mandato fortunatamente incostituzionale, ma in base a quel rapporto di fiducia e responsabilità l'uno verso l'altro che ne stabiliva il principale viatico per la riconferma del parlamentare e la rappresentatività del votante.
Abolendo il voto di preferenza è stata intaccata quella forza della nostra democrazia rappresentativa, già così flebile a causa di quel voto di scambio ancora così lontano dall'essere vinto una volta per tutte. Parlare oggi di una riforma elettorale urgente potrebbe essere avvertito come non prioritario rispetto ai problemi reali del Paese. Forse. O forse no: perché tutti i problemi di un'Italia così bistrattata possono riassumersi ed averne la causa principale nella rinuncia spontanea o nella sottrazione dall'alto di quella entità democratica, agli occhi di molti così pallida e sbiadita.

venerdì 24 dicembre 2010

Nuova Linea Editoriale

Già che ci siamo, già che c'è voglia di parlare ed indignarsi ancora, perché non dedicare l'ultimo pensiero della notte al caro insetto nazionale?
Si è appena conclusa l'ultima puntata di Porta a Porta, la cui terza parte era incentrata sulla riforma dell'università approvata ieri 23 dicembre.
Ebbene, in studio c'era ovviamente Bruno Vespa che presentava la legge con un'imparziale "non si poteva fare meglio", in compagnia del giornalista Paolo Mieli che dipingeva ancor più cautamente il provvedimento come un "autentico miracolo". Se ai due pareri pesati ed obiettivi aggiungiamo il terzo, ultimo ed umile intervento del ministro dell'istruzione che da il suo nome all'intera riforma, ci rendiamo conto di come anche questa sera Rai Uno è riuscita a garantire il suo contraddittorio all'azione del suo Governo.
La propaganda moderna si nutre di piccoli e continui sforzi quotidiani, non di grandi opere.

Mea Culpa

Voglio innanzitutto porgere le mie scuse ai pochi ma cari lettori di questo spazio per la mia improvvisa scomparsa. Non mi aspettavo le dimostrazioni di stima e gli incitamenti ad andare avanti raccolti in questi giorni e devo dire che mi sono sentito doppiamente vigliacco (cit. per palati fini, fini con la minuscola, eh) per aver sospeso il mio blog. Perciò, con la promessa di evitare nuovi prolungati silenzi e ritornare a scrivere con costanza, mi impegnerò a ritornare su ogni argomento che avrei voluto e dovuto trattare in queste settimane e che ho invece trascurato.

So di non potermela cavare così e lo sapevo ogni qualvolta avevo intenzione di riprendere a battere su questa tastiera: dovevo trovare una scusa convincente per il mio abbandono.
Inizialmente pensavo di poter approfittare del triste esempio dei politici e dei calciatori italiani. I primi avevano deciso una sospensione dell'attività parlamentare fino al voto di sfiducia del 14 dicembre, i secondi avevano proclamato una domenica di sciopero dai campi della Serie A: entrambi in sostanza non avrebbero "lavorato" per ben due settimane. E suonava vagamente provocatorio come le due corporazioni più seguite degli italiani potessero in contemporanea incrociare le braccia, o le gambe.
Ma se qualcuno credeva a questo genere di coincidenze, il blocco duopolistico italiano è stato presto sciolto dalla categoria "lavorativa" delle due più responsabile: i pallonari, ovviamente, che revocarono per tempo il loro sciopero.

Insisto con quel genere di virgolettato perché è il punto di partenza di un lungo elenco di somiglianze tra i due mondi che non può non destare inquietudine.
Gli appartenenti di entrambe le sfere vengono pagati profumatamente per svolgere attività delle quali qualsiasi altro italiano si occuperebbe gratuitamente. Gli stessi protagonisti, al pari degli spettatori/elettori, mancano il più delle volte delle più basilari concezioni di tolleranza o fair play. Da una parte cresce l'astensionismo, dall'altra gli stadi sono sempre più vuoti. Da una parte i politici sono sempre in tivvù, dall'altra in tivvù c'è sempre una partita da guardare. Da una parte la qualità dello spettacolo è sempre più bassa, dall'altra piove sempre di più, governo ladro. Da una parte i conti delle società sono sempre più in rosso, dall'altra il debito pubblico del Paese va sempre più in alto. Da una parte si abbandonano i vivai, dall'altra abbiamo un giovane su quattro disoccupato. Da una parte l'unico confronto tra le parti avviene in un regime perenne di violenza verbale se non fisica e dall'altra... dall'altra pure.

Chiusa qui la digressione, dicevamo che rimaneva soltanto la politica ad incaponirsi nel suo lassismo. Perché se da una parte è vero, è la Costituzione stessa a recitare che una mozione di sfiducia non può essere votata prima di 3 giorni dalla sua presentazione in aula, dall'altra nessuno è riuscito ad accorgersi che quattro settimane, di cui le ultime due di ozio integrale, forse erano un'esagerazione. Perché in quelle due settimane, ognuno dei 950 parlamentari ha continuato a percepire il suo salario (rimborso, ci tengono a precisare; e prometto a breve un resoconto il più dettagliato possibile sull'entità dello stesso: vi anticipo soltanto che per 14 giorni senza far nulla siamo almeno sui 9.000 euro esentasse più bonus).

Perché poi in due settimane trovare un parlamentare con un mutuo da pagare o un'agopuntura che faccia discordia all'interno del proprio partito non è poi così difficile. Il problema è che non si capisce il motivo per il quale il nostro caro premier abbia dovuto ricorrere a tanto, a meno che non si avvalli la teoria dei grugniti di Di Pietro: quella di evitare di farsi giudicare per reati di cui continua a dichiararsi innocente. Perché non c'era nulla di meglio per le forze di governo che vedersi spegnere da un'opposizione incapace di mettere insieme una maggioranza alternativa e ripresentarsi così alle urne esente dalla responsabilità della fine di una legislatura che avevano iniziato con una sessantina di parlamentari di vantaggio. Continuo a pensare che per la premiata ditta B&B non si sarebbe potuta presentare occasione migliore e continuo a ritenere il loro strategicamente un passo falso, politicamente il peggior governo possibile per il Paese.

Ogni giorno pensavo a come e quando ritornare a scrivere, ve lo assicuro. Ma non era facile farlo, non con i conati di vomito che ti coglievano puntualmente ogniqualvolta incrociavi il volto di Scilipoti in tivvù, salito nel frattempo alla ribalta per il suo movimento (da uno schieramento all'altro) di responsabilità nazionale; quando assistevi agli spettacoli indecenti di La Russa; mentre tentavi di capire cosa stava mugugnando Di Pietro; nei momenti in cui ti chiedevi se davvero Bersani stava sostenendo quello che aveva appena detto.
Potrei continuare a lungo in questo elenco bipartisan di orrori politici perché erano sotto gli occhi vostri come quelli miei. Ma così proseguendo non farei altro che aderire alla condotta standard di quegli stessi ceffi fin qui da me (e dal buon senso comune) deplorati: di quanti per discolparsi delle proprie negligenze scaricano le proprie responsabilità sul prossimo o si appellano al "così fan tutti" della lordura diffusa.
Perciò non mi resta null'altro da fare che recitare il Mea Culpa.

Buon Natale a tutti.

martedì 30 novembre 2010

Quanto Manca? Part III

Terza e ultima puntata sull'analisi della situazione politica in vista del voto di sfiducia del 14/12. Parlerò dei partiti che, è proprio il caso di dirlo, ancora mancano all'appello dell'area di centrosinistra: Partito Democratico, Italia dei Valori e Sinistra e Libertà.

Il governo è cambiato e tu te ne sei andato
PD. Tenersi aperte tutte le possibilità è mestiere da buon diplomatico ma non se aspiri a diventare un partito maggioritario e, soprattutto, autorevole. Nessuno degli scenari che ha davanti è stato scritto da un piddino, eccetto quello di un governo allargato con Fini, Casini, Rutelli, Di Pietro e Chi Ci Sta (il fratello scemo di La Qualunque). Gli obiettivi di una nuova legge elettorale, un patto di stabilità per affrontare la crisi e impedire la riforma Gelmini sono encomiabili ma tale governo non avrebbe né i numeri in entrambe le Camere, né la consistenza per resistere più di una folata di vento in un inverno ormai prossimo che si prospetta durissimo.
L'alternativa, per quanto inspiegabilmente indigesta, è dunque il voto immediato sperando che falliscano dall'altra parte i tentativi di rimettere in piedi una nuova maggioranza di centrodestra. Ma il partito si divide (in)credibilmente sulla scelta dell'alleanza. Da una ci sono parte IdV, SEL e una ragionevole parte della sinistra, dall'altra il Comitato di Liberazione Nazionale con c'entristi e finiani.
La prima ipotesi eviterebbe alleanze assurde con la destra ma imporrebbe un'attenta selezione della sinistra più radicale e non darebbe la certezza della vittoria. La seconda invece garantisce maggiori probabilità di successo elettorale, ma porterebbe a osceni compromessi trasversali. E se a sinistra si teme tanto la sconfitta alle primarie contro Vendola, nell'ipotetico CLN il leader quasi sicuramente non sarà un piddino, nonostante in entrambi i casi il PD rimarrebbe il bacino elettorale maggiore della coalizione: rimarginare il proprio ruolo a destra pur di non rimarginarsi a sinistra, resta un proposito inspiegabile ai più.
Prospettive: se ci sarà la sfiducia proveranno un improbabile governo trasversale, le cui possibilità rimangono però subordinate ai tentativi di dialogo nel centrodestra. Nel voto a primavera partono alla pari (o in leggero vantaggio?) col centrodestra nel caso si corresse a tre, ma l'idea di un governo c'entronissimo con Fini, Casini e compagnia cantante li tormenterà sino all'ultimo momento facendone calare i consensi.

Ti piace vincere facile?
IdV e SEL. Partiti piuttosto diversi ma in una situazione molto simile. Favorevoli più al voto immediato che al governo trasversale dopo la sfiducia, sono entrambi un viatico obbligatorio per qualsiasi coalizione di centrosinistra. I piddini vorrebbero sganciarsi dall'irrequietezza dipietrista ed evitare il rischio di una sconfitta contro Vendola alle primarie di coalizione, ma per loro oramai è troppo tardi a meno che non scendano a patti con Fini.
Né l'UDC né FLI sono disponibili a una coalizione elettorale con questi due partiti, ma dall'altra parte sia SEL che l'IdV hanno raggiunto un bacino di voti che gli garantisce ugualmente la presenza in Parlamento; e il loro consenso potrebbe aumentare in caso di "tradimento" del PD nei confronti dell'elettorato di sinistra.
Prospettive: Di Pietro e Vendola assistono indispettiti al dubbio amletico piddino, ma rassicurati dal fatto che alla fine Bersani e co. torneranno in ginocchio da loro a chiedergli un'alleanza di sinistra in vista di un voto che nonostante tutto non li vede battuti in partenza, anzi. Se sapranno risvegliare l'elettorato d'appartenenza, convincere la maggioranza degli indecisi e limitare le perdite dei voti di protesta verso il MoVimento 5 Stelle, la vittoria potrebbe non essere una chimera.

Ultimo appunto sul microcosmo della falce e martello riunito nella FdS: La Federazione della Sinistra recupera i resti di Rifondazione, Verdi, socialisti e comunisti vari usciti due anni fa dal Parlamento, che potrebbero scendere a patti con Vendola o il PD pur di ottenere qualche scranno in Parlamento. Porterebbero con sé un buon bacino di voti, ma anche considerevoli grattacapi per un eventuale governo oltre che lo spettro della grande ammucchiata di prodiana memoria.


p.s.: quasi dimenticavo, mancano ancora due interminabili settimane.

domenica 28 novembre 2010

Quanto Manca? part II

Seconda parte dell'analisi riguardante la situazione politica in vista del 14 dicembre. Tocca ai partiti del nuovo vecchio grande c'entro: Futuro e Libertà per l'Italia e Unione dei Democratici Cristiani e di Centro.

Con. Ma anche senza.
FLI. Tutto dipende da loro ma continuano a giocare con le carte coperte. Come ha sapientemente riassunto la Jena di Riccardo Barenghi questa mattina: ma Fini lo sa se Fini voterà la fiducia a Berlusconi?
Improvvisamente antiberlusconiani, si guardano in giro per mantenere in vita la legislatura il più possibile in modo da strutturare il partito e prepararlo alle elezioni. Hanno inizialmente guardato a sinistra per un governo che escludesse sia Berlusconi che la Lega: ma i numeri al Senato non ci sono a meno della improbabile fiducia di pidiellini non troppo berlusconiani. Inoltre i rapporti con l'IdV sarebbero tutt'altro che facili. Rivoltatisi a destra, sperano in un nuovo governo che perlomeno neghi la leadership a B., ma anche quest'alternativa rimane difficilmente realizzabile.
La scelta quindi probabilmente rimarrà tra un rimpasto che preveda il reinserimento dei nuovi alleati c'entristi, coi quali pare vadano d'amore e d'accordo e le elezioni in primavera: da terzo polo o con alleanza fino al PD ma non oltre, con probabile Montezemolo a fare da unificatore.
Prospettive: resistere il più possibile per cercare in tutti i modi di votare una nuova legge elettorale che premi i partiti come il suo e quello di Casini e poter stringere alleanze di governo dentro il prossimo Parlamento, vendendosi a chi offre di più.

Lui c'entra. Sempre
UDC. Ecco perché detesto i partiti che si dicono di c'entro: seppur con un elettorato ridotto e con una presenza parlamentare ristretta, in casi come questi fungono da ago della bilancia senza averne alcun merito. Acerrimo nemico della Lega ma non di Berlusconi, a differenza degli alleati finiani sono pronti per le elezioni e possono così alzare il prezzo per un'eventuale ingresso nel governo: prezzo che vorrebbero far pagare interamente a Bossi.
Anche loro in un eventuale svolta a sinistra non andrebbero oltre il PD e in un fantagoverno FLI-UDC-PD ci sguazzerebbero alla grande. Per il dopo-Silvio Casini sogna il ritorno del grande c'entro facendo da playmaker tra Fini, Rutelli e Lombardo e magari Montezemolo ma al momento i numeri sono scarsi: più probabile un semplice ritorno al centrodestra, escludendo la Lega.
Prospettive: i c'entristi sono in posizione di vantaggio per qualsiasi scenario, attenti nel cercare quello che gli consenta di cambiare la legge elettorale. Probabile ritorno in un governo B. in caso di neutralizzazione della Lega; la proposta fatta al PD è talmente svantaggiosa per i neodemocristiani da non sperarci nemmeno più di tanto.

Un appunto sugli altri partitini: ApI e MpA sono l'ultimo esempio più palese del trasformismo made in Italy. L'Alleanza per l'Italia di Rutelli nasce da una ristretta fuoriuscita della componente cattolica del PD, mentre il Movimento per le Autonomie di Lombardo è reduce dalla vittoria elettorale nella coalizione di Berlusconi. Vengono ora ad incontrarsi al c'entro partendo dalle due coalizioni che si sono affrontate alle scorse votazioni politiche nazionale. Non ho altro da aggiungere, vostro onore.

venerdì 26 novembre 2010

Quanto Manca?

Magari bastasse arrivare al fatidico 14 dicembre per buttarsi tutto alle spalle: comunque vada, ciò che ne verrà dopo sarà anche peggio.
Maggioranza risicata, nuovo governo Berlusconi, governo alternativo, elezioni: qualsiasi scenario politico non cambierà un copione già scritto di cui questa vigilia non è nient'altro che l'indigesto antipasto. Che il governo ottenga la fiducia alle Camere oppure no, non sarà difficile trovare qualcuno disposto ad accusare l'altro di tradimento o di boicottare il Paese e viceversa. Sarà una doppia razione di caciara a reti unificate di cui noi siamo già gli unici finanziatori, oltre che i soli a prenderlo dove potete immaginare.

Cheglienefrega della crisi e altrettanto cheglienefrega di mostrare un minimo di convergenza di fronte alle emergenze che colpiscono tutto il territorio. Rassegniamoci: l'unico modo che conoscono i nostri politici per ricompattare gli elettori dalla propria parte, è quello di aizzarlo contro il nemico. Senza accorgersi che l'elettorato tutto si sta bipartisanamente allontanando da loro. L'astensionismo e la scheda bianca in crescita nelle ultime tornate elettorali ne sono un sintomo, anzi una reazione ed il risultato ultimo. Purtroppo, però, da soli non portano a nulla: che si rechino alle urne 40 milioni d'italiani oppure la metà o soltanto un decimo non c'è alcuna differenza, basta una manciata di voti per convalidare le elezioni e riempire gli scranni del Parlamento.

Siccome dobbiamo accontentarci di cotanto spettacolo, proverò nei prossimi giorni a fare l'autopsia di questa classe politica pezzo per pezzo e analizzare il loro personalissimo stato di emergenza. Senza sondaggi, senza numeri con la virgola e senza riportare il loro squallido linguaggio politichese: avete la mia parola. Ma soltanto interpretando quanto è sotto gli occhi di tutti e analizzando ciò che potrebbe celarsi dietro le quinte.

Parto dai due partiti che hanno vinto le elezioni: il Popolo delle Libertà e la Lega Nord.

"Comunista!" (cit.)
PdL (in attesa che cambino nome). Hanno perso una buona quota di parlamentari e di elettorato annesso, non hanno più la maggioranza alla Camera, dove spesso vanno sotto nelle votazioni, ma mantengono quella al Senato che le vale da comodo salvavita per impedire la formazione di un governo FLI-UDC-PD-IdV (dal quale ricaverebbero sicuramente vantaggi in termini di vittimismo ma costringerebbero B. a presentarsi in tribunale in caso di decisione avversa della Corte Costituzionale il 14/12).
Perciò continuano a trattare con futuristi e c'entristi, i quali fanno sapere che la condizione necessaria per andare avanti sono le dimissioni del premier; questi accetterebbe soltanto qualora rimanesse il leader anche della nuova maggioranza, facendo così vacillare i finiani. Ipoteticamente ci sarebbero poi da ricucire i rapporti tra Casini e Bossi, impresa tutt'altro che facile.
L'alleanza col Carroccio è salda fino ad un certo punto: i leghisti avvertono l'aria del dopo-Silvio e non sono affatto certi che un futuro centrodestra guidato da Fini voglia allearsi con loro.
Prospettive: se il PdL non riuscirà a rimettere in piedi il governo, farà di tutto per impedirne uno nuovo che cambi la legge elettorale, preferendo andare subito al voto alleandosi anche da solo con la Lega. La possibile vittoria porterebbe molto probabilmente una maggioranza soltanto alla Camera e non al Senato, bloccando ulteriormente il Parlamento e costringendosi a trattare per una coalizione più ampia. Il tutto con un candidato premier che inizierebbe la legislatura a 75 anni e con l'obiettivo intermedio di succedere a Napolitano.

Il miglior manifesto di sempre
Lega. Il loro unico interlocutore è rimasto il PdL. Sicuri di una vittoria con il Porcellum cucitosi su misura, finora sono sempre stati a favore del voto subito: arriverebbero a sacrificare perfino le deleghe ricevute dal governo per il federalismo (che scadono in primavera), scaturendo addirittura dei dubbi sulla volontà del Carroccio di portarlo a compimento.
Da qualche giorno, però, hanno riaperto il tavolo per un rimpasto di governo: forse qualche luminare, merce rara trai leghisti, ha suggerito al Senatur che con i tre poli in gara la vittoria elettorale sarebbe tutt'altro che certa e quasi sicuramente zoppa al Senato. Oppure si sono accorti che con il mancato intervento agli alluvionati veneti le cose sono cambiate: la Roma ladrona, sorda alle richieste d'aiuto, oggi potrebbe essere tinta di verde agli occhi di tanti settentrionali.
Come detto in precedenza, cresce anche la preoccupazione per il dopo-Silvio ed il rischio di tornare ad essere un partito di protesta senza aver ottenuto il federalismo tanto sbandierato dopo esserci andati così vicini, sarebbe uno smacco imperdonabile.
Prospettive: rimettere in piedi il governo e arrivare al termine della legislatura ma non a qualsiasi costo; se i compromessi richiesti da finiani e c'entristi dovessero rivelarsi esorbitanti, meglio il voto subito, anche a costo di dover essere i responsabili della crisi.

martedì 23 novembre 2010

Il Cassonetto di Pandora

Aspettavo con ansia il momento in cui qualcuno avrebbe scoperchiato in tivù il vaso di Pandora della spazzatura in Campania e ne sarebbero venute fuori le verità sulle montagne di rifiuti industriali non appartenenti al tessuto produttivo napoletano.
Dico "in tivù" perché a quanto pare in questo mondo, se un fatto non lo trasmetti in televisione è come se questo non sia mai avvenuto o mai esistito. Sottolineo "in tivù" perché se ad ascoltare certe parole sono quasi 10 milioni di persone, un sesto dell'intera popolazione nazionale, forse è la volta buona che qualcuno ti prende sul serio.

Il problema è che non serve a nulla se sono soltanto articoli di quotidiani, riviste di settore, libri d'inchiesta oppure sentenze di tribunali e indagini della magistratura a rivelare certi fatti (FAT-TI). Devi andare in televisione a parlare, di qualsiasi cosa, per farti ascoltare. E anche lì, nel riflesso di un tubo catodico, rischi di non essere creduto, nonostante i fatti (FAT-TI) ti diano ragione.
Rischia di non essere creduto perfino Roberto Saviano perché la sua voce, ieri sera durante il suo monologo a "Vieni via con me" come in ogni momento della sua vita, è tradito da quell'accento partenopeo tipico di chi nasce nel capoluogo campano e cresce nel casertano. E se un partenopeo parla della sua Napoli e della sua regione difendendola e provando a far capire che le responsabilità del disastro ambientale che colpisce milioni di cittadini italiani (I-TA-LIA-NI) non sono attribuibili unicamente a loro, sei di parte: sei solo un napoletano (terrone, aggiungerei) che difende sé stesso e gli altri napoletani (terroni).
Non hai alcun briciolo di credibilità, sei solo un vittimista che prova a discolparsi per responsabilità che i fatti (FAT-TI) invece non ti attribuiscono, se non in minima parte.

Da anni Saviano è costretto a dribblare accuse di appartenere a quello o quell'altro partito o opinione politica. Ieri che ha esplicitamente affermato come le responsabilità per quanto riguardava l'aspetto politico della questione sono riconducibili a destra come a sinistra, lo scrittore è riuscito ad evitare soltanto il primo dei grandi scontri che dividono questo Paese, ma è caduto inevitabilmente prigioniero del secondo, forse meno violento e rancoroso del precedente ma sicuramente più inconcepibile e ingiustificabile: quello che contrappone il Nord al Sud. Come se non si trattasse della stessa Nazione.

Anch'io, non mi nascondo, avendo vissuto per 19 anni nella provincia napoletana dovrei essere di parte e discreditato a parlare di quest'argomento, ma ci tengo troppo per non farlo. Per evitare ogni "conflitto d'interessi", proverò dunque a riproporre qui di seguito i risultati di una ricerca condotta e pubblicata già nel Settembre 2004 dalla maggiore rivista specializzata in oncologia: The Lancet Oncology.
Kathryn Senior e Alfredo Mazza, autori della suddetta ricerca, hanno ad esempio definito il "Triangolo Italiano della Morte" il territorio situato tra le città di Acerra Nola e Margiliano (qui potrete leggere l'articolo in inglese sul sito qualora foste registrati, mentre qua potete trovarne il testo completo riportato fedelmente).La conseguenza dei versamenti dei rifiuti nelle campagne campane* provenienti dalle industrie del Nord Italia e del resto dell'Europa industrializzata (Germania soprattutto) sono un incremento considerevole dell'incidenza di mortalità nella popolazione causata dai tumori.

La tabella che vedete (tratta da Wikipedia) riassume i dati riportati nell'articolo citato e dice che per ogni 100.000 abitanti, nel territorio sopra citato (riferente all'ASL NA4) i morti per cancro al fegato sono superiori rispetto alla media nazionale del 175% tra la popolazione maschile (38,4 contro 14) e del 245% tra quella femminile (20.8 contro 6): questo è solo il dato più eclatante e direttamente indirizzabile al consumo di alimenti tossici e al contatto con ambienti contaminati, ma ci sono altre coincidenze preoccupanti come le maggiori percentuali dei tumori per laringe, vescica e sistema nervoso.
Ma ancora più terrificante è sapere che sono dati aggiornati al 2002 e che non tengono quindi conto del peggioramento di una situazione precipitata in tempi recenti fino alle emergenze televisive (e solo televisive, dato che il problema è in realtà perenne ma solo di tanto in tanto cattura l'attenzione dei media) del 2008 e di oggi.

Io mi rendo conto che informarsi, documentarsi e poi farsi una propria opinione sia più difficile di guardare la televisione, vedere cumuli di munnezza per i vicoli di Napoli e offendere una cittadina intera mortificata dai soprusi di politici (e) criminali senza scrupoli, ma bisogna a fare qualche sforzo ogni tanto.
Perché poi si sa, le scorciatoie sono sempre le vie più comode: la camorra insegna.


*campagne campane è un'assonanza voluta per ricordare come la bontà dei frutti di queste terre era celebre sin dai tempi dei Romani da darne addirittura il nome all'intera regione: quelle stesse terre rovinate oggi per sempre pur di assicurarsi qualche soldo o qualche poltrona in più.

giovedì 18 novembre 2010

Cose Nostre

Le polemica tra Roberto Saviano ed il ministro degli Interni Maroni, congiuntamente all'arresto di ieri del boss camorrista Antonio Iovine, offrono l'occasione per parlare di lotta alle mafie.

Due rapide parole sulla disputa trai due Roberto: se Saviano ha compiuto sicuramente un passo più lungo della gamba nella sua ricostruzione dei contatti tra Lega e 'ndragheta, Maroni ha peccato forse di ipocrisia nello smentire affermazioni non del solo scrittore casertano ma perfino sue.
Certamente il ministro non ha mai sostenuto che la Lega intreccia rapporti con le mafie ma ha più volte ribadito la presenza di nuclei della criminalità organizzata nel Settentrione e particolarmente in Lombardia. Se il Nord è praticamente in mano al Carroccio e ai suoi alleati del PdL, e se è vero quanto da lui confermato ieri sera ospite da Matrix a proposito dell'infiltrazione mafiosa, alla luce di tutto ciò Cosa Nostra, Camorra e 'ndrangheta con chi possono interloquire oltre il Po per allargare i loro affari? Coi radicali? Con Rifondazione?

Maroni, dall'alto dei successi ottenuti dalla squadra antimafia durante il suo dicastero (dei quali tutti, io per primo, gli dobbiamo rendere merito e gratitudine), si dimentica di essere soltanto uno dei componenti della Lega. Non può prenderla sul piano personale se qualcuno, alla luce di inchieste giudiziarie ancora in corso, profila un rapporto tra un mafioso e un leghista: perché Maroni non è tutta la Lega, ma soltanto un suo esponente (il più capace, sicuramente) e le mele marce nascono ovunque.

Un'altra questione che il ministro dovrebbe spiegare, è in che modo potrebbe continuare la lotta antimafia se non ci fossero le intercettazioni e come potrebbero lui ed il suo partito, di cui prende strenua difesa, votare un decreto che le impedirebbe/limiterebbe sensibilmente: tutte proposte farina del sacco del suo caro premier. Proprio quelle intercettazioni ambientali e telefoniche che ieri, come in molti casi precedenti, hanno permesso di garantire alla giustizia la lunga lista di pericolosi boss che può vantare di aver visto passare in manette durante la sua permanenza agli Interni.

Ovviamente soddisfatto
Ribadisco la gratitudine e l'ammirazione per gli uomini che hanno raggiunto questi risultati e per Roberto Maroni che ne ha garantito l'operatività, ed è per questo che inviterei il ministro a non cadere nella trappola del garantismo ad ogni costo.

E aggiungerei un ultimo appunto su quanto da lui detto sempre ieri sera su canale 5 (cito a memoria in assenza di supporti video):
"La presenza dei militari nel napoletano durante il settembre del 2008 ha permesso ai cittadini di rendersi conto della gravità della situazione e della presenza dello Stato, e i risultati si sono visti."
Ecco, caro ministro, perché non continuare a tenere l'esercito di presidio nelle zone maggiormente minacciate dalla presenza delle mafie? Perché non continuare a far sentire la presenza dello Stato laddove c'è più fiducia nella criminalità organizzata che nelle istituzioni? Perché non provare ad aggiungere la sensibilizzazione quotidiana delle popolazioni ai successi dei tanti latitanti arrestati?

Studia, Gasparri, Studia!

Non credo che questo sia il semplice e rozzo grido di una parte politica contro quella avversaria.
Bensì lo sfogo dell'indignazione di chi si prepara ogni giorno per farsi trovare pronto quando il mondo del lavoro, o il dovere di Stato, li chiameranno a rispondere contro chi svolge importanti ruoli all'interno delle istituzioni politiche italiane senza sapere minimamente di cosa si stiano occupando.

mercoledì 17 novembre 2010

Primarie alla Scala

Se Sparta piange, Atene non ride (lo scambio di città è voluto e doveroso).  
Mentre il governo di Berlusconi balla al ritmo della Tarantella de lu centrodestra (parole di Checco Zalone, musiche di Gianfranco Fini), sulla sponda sinistra di Teatro Montecitorio riescono a trovare un modo per non approfittare delle disgrazie altrui.
Galanteria? Macché. Quelle che dovrebbero essere le prove generali di un commedia a lieto fine, si trasformano sul palco del PD in scene da requiem, con pianti e strilli degni della migliore tragedia euripidea.

Batterà i pugni sul tavolo?
Il lutto elaborato in casa Bersani questa settimana è dovuto alla sconfitta di Stefano Boeri, candidato ufficiale della segreteria piddina, contro il vendoliano Giuliano Pisapia nelle primarie di coalizione per scegliere l'avversario della Moratti alle prossime elezioni comunali a Milano.
Con questo preludio si alza a sorpresa il sipario e gli attori, ancora alle prese con truccatori e costumisti, incerti su un copione non già memorizzato, sono costretti ad apparire in scena e recitare a braccio, sebbene si tratti della replica di uno spettacolo già uscito nelle sale poco meno d'un anno fa in Puglia.
La recidiva, però, rende quel melodramma dal sapore antico uno modernissimo psicodramma.
Davanti a delle quinte di diffuso malcontento vanno in scena smorfie di disappunto, borbottii, parole di delusione, gesti di stizza, autocritica (poca), critica (a fiumi) e accuse fino all'atto di responsabilità finale.

Peccato.
Peccato perché lo strumento di scelta dei candidati instaurato dal PD nel centrosinistra è un meccanismo democratico che non può che far bene ad una giovane democrazia come quella italiana. Purtroppo, essendo così giovane e altrettanto travagliata, la nostra democrazia ancora non è riuscita a completare il percorso formativo dei suoi partecipanti. Non c'è culto della tolleranza, non c'è accettazione della sconfitta, non c'è rispetto per gli alleati e figuriamoci per gli avversari.

Se legittime sono le correnti all'interno di un partito o i temi su cui i componenti di una coalizione non convergono, non altrettanto possono esserlo la continua contrapposizione e la mancanza di collaborazione al loro interno.
Molti nel PD non si rendono neanche conto dell'importanza dello sistema che hanno introdotto in Italia, o semplicemente non hanno ancora capito come funziona o come sia necessario comportarsi affinché esso operi a dovere.
La logica delle primarie, che affida agli elettori il compito di decidere sulle proposte avanzate dal partito, si pensava avrebbe potuto persino appianare gli scontri all'interno delle segreterie. Invece, finora, hanno ottenuto l'esatto contrario, riuscendo a dividere ulteriormente fazioni già distanti tra loro e spaccare rapporti personali incrinati.

Per farla breve e riprendere la metafora con cui ho iniziato: il problema del PD (e intorno al PD) non è la pluralità di voci diverse, ma l'incapacità di quest'ultime di sottrarsi al protagonismo dei solisti e diventare un coro all'occorrenza.

martedì 16 novembre 2010

Voci da Sotto Coperta

Sono momenti concitati per i politicanti italiani.
Il transatlantico delle libertà sta affondando e per ogni marinaio che promette di non abbandonare il capitano suo capitano, ce n'è uno già in salvo sul barcone futurista ed un altro in preda alle crisi di panico.
Sull'isola deserta come naufraghi stanno gli italiani, abbandonati al loro mesto destino, reso ancor più triste dalla consapevolezza di esserselo scelto da soli, al calduccio primaverile di una cabina elettorale al riparo da occhi indiscreti.

Nel marasma generale, proliferano le voci delle sibille sui possibili scenari futuri, ma non tutte sono attendibili né tutte rivelano ipotesi lecite o legittime, o fondate su una attenta lettura della nostra Costituzione. Tenendo sottomano proprio quest'ultima, passiamo in rassegna le dicerie di questi giorni.

"Prima la mozione di fiducia al Senato, poi quella di sfiducia alla Camera."
Articolo 94.
Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere.
Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale.
Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia.
Il voto contrario di una o di entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni.
La mozione di sfiducia deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera e non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione.

La fiducia si vota al momento dell'insediamento o si pone sulla votazione di provvedimenti ritenuti essenziali dall'esecutivo per la condotta politica del Paese.
Spetta invece alla Camera presentare la mozione di sfiducia, che viene votata non prima di tre giorni.
Ergo: prima la sfiducia alla Camera e non per un mero motivo di precedenza nella presentazione rispetto alla mozione di fiducia del Senato.

"Sciogliere soltanto la Camera."
Articolo 88
Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse.
Non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura.

Napolitano può sciogliere soltanto la Camera come può sciogliere soltanto il Senato. Nel 2008, esempio più recente, la Camera votò la fiducia al governo Prodi ed il Senato no, ma non per questo venne sciolto soltanto quest'ultimo. In realtà, lo scioglimento di una sola Camera non avviene dal 1963, ovvero da quando le due aule parlamentari hanno la stessa durata (in precedenza la Camera durava 5 anni ed il Senato 6).
Ergo: si potrebbe ma non è né consuetudine farlo, né recherebbe giovamento alle casse statali se si pensa che dopo soli due anni si tornerebbe comunque a votare nuovamente.

"Non è possibile in questa legislatura un governo non presieduto da Berlusconi."
Titoli I, II e III della Seconda Parte sull'Ordinamento della Repubblica

I cittadini italiani eleggono i rappresentanti al Parlamento, che a loro volta esprimono una maggioranza di governo presieduta da un Presidente del Consiglio; quest'ultimo deve il suo incarico al Parlamento e non all'elezione diretta dei cittadini.
L'Italia è una Repubblica Parlamentare e non Presidenziale. Il nome del leader del partito scritto sul simbolo presente nelle schede elettorali non è sufficiente a trasformare le elezioni per il Parlamento in una scelta diretta del Presidente del Consiglio. Se le Camere elette esprimono nel corso della legislatura una maggioranza diversa da quella in carica, è loro dovere fiduciare un nuovo esecutivo, guidato da chicchessia. Nel caso in cui il Parlamento non riesce ad esprimere alcuna maggioranza, l'unica strada è il ritorno alle urne.
Ergo: se nasce una nuova maggioranza, con o senza Berlusconi a capo, bene: altrimenti si vota.

"Il governo tecnico è rovesciamento della volontà degli italiani."
Titoli I, II e III della Seconda Parte sull'Ordinamento della Repubblica

La volontà degli italiani emerge al momento dell'elezione del Parlamento e non quando viene a formarsi questa o quella maggioranza. Se il Parlamento, espressione della volontà degli italiani, incarica un nuovo esecutivo, questi sarà assolutamente legittimo.
Ergo: un governo tecnico, o un governo che si poni pochi e precisi obiettivi (una nuova legge elettorale, ad esempio) non è un rovesciamento della volontà degli elettori.

Momento Serietà



Chi è la realtà e chi è la fiction?

domenica 14 novembre 2010

Il Potere logora chi ce l'ha

Alla vigilia di una settimana che si preannuncia turbolenta, sarebbe opportuno fare un passo indietro per analizzare le dinamiche che hanno portato l'attuale governo a questo punto di non ritorno.

C'è una teoria politica che dice: quando una coalizione di governo assume il potere per un periodo prolungato di tempo e/o con una maggioranza numericamente eccessiva rispetto agli altri partiti, tale governo può trovare le maggiori controversie direttamente nel suo dibattito interno. In poche parole, un esecutivo con troppo margine di potere riceverà dal suo interno quella opposizione che non può arrivare dall'esterno.

La spaccatura che sta vivendo oggi il quarto governo Berlusconi è la conferma più limpida di quanto detto qui sopra, ma procediamo per gradi nella nostra dimostrazione.

Partiamo dal piano temporale: il centrodestra ha abbondantemente vinto le elezioni politiche del 2001, approssimativamente "pareggiato" quelle del 2006, e rivinto con un ampio margine quelle del 2008. Dopo quest'ultima tornata nazionale, la coalizione guidata dal PdL ha inoltre sostanzialmente portato a casa anche tutte le altre elezioni intermedie: europee, regionali, provinciali e comunali. Con 8 anni di Governo negli ultimi 10 e ben 3 tornate elettorali vinte di fila, ci sono dunque fondati motivi per ritenere che il consenso del centrodestra sia sufficientemente prolungato nel tempo.

Ma è sul piano quantitativo che i requisiti della teoria di cui sopra sono inequivocabilmente rintracciabili: nel 2008, e ancor più nel 2001, la maggioranza conquistata nelle due aule parlamentari è stata di molto superiore alle forze delle opposizioni. Un vantaggio, in entrambe le occasioni, superiore ai 50 deputati e i 25 senatori.
Come se non bastasse, dei tre partiti eletti fuori dalla coalizione vincente uno è l'UDC, ex alleato del governo odierno: di certo non quello che si definirebbe un acerrimo avversario.

Proprio l'allontanamento dei c'entristi dalla coalizione di centrodestra è il primo sintomo di una maggioranza che ha cominciato a trovare dissenso al suo interno. Nonostante ciò, i numeri dell'attuale governo in Parlamento sono abbondantemente favorevoli.
Perfino troppo.

In netta minoranza in entrambe le Camere, le opposizioni si ritrovano con un potere contrattuale fortemente ridotto, indipendentemente dai loro demeriti. Se a ciò si aggiunge un abuso da parte del governo ampio ed inutile (perché i numeri in Parlamento li avrebbe tutti per una regolare funzione legislativa) della questione di fiducia e della formula del decreto, il ruolo delle opposizioni viene ulteriormente limitato.

In una situazione del genere, e con un Capo dello Stato pronto a firmare anche le ricevute di pagamento delle gentili ospiti di Palazzo Grazioli, non ci sono più ostacoli per l'approvazione di qualsivoglia provvedimento.

Ed è proprio in questo momento che avviene lo scontro all'interno della maggioranza. Se è vero che ogni coalizione, perfino ogni partito di notevole dimensione, deve far fronte a divergenze e dibattiti dentro le proprie mura, tali conflitti saranno tanto più aspri quanto meno preoccupanti sono le minacce dall'esterno.
Per fare un esempio della situazione inversa: se la coalizione di centrosinistra eletta nel 2006 è riuscita a tirare a campare per due anni nonostante avesse soltanto un voto di vantaggio al Senato, ciò è avvenuto grazie soprattutto ad una minaccia forte dell'avversario dall'esterno, che induceva ad un ricompattamento (nei limiti del possibile) delle forze di governo.

Con Bossi dietro al cespuglio e le opposizioni inermi per mancanza di pericolosità parlamentare, Berlusconi e Fini possono tranquillamente sfidarsi a viso aperto, come sta accadendo, anche per mere questioni personali. Solo così si può spiegare come una tale maggioranza parlamentare, composta peraltro da soli due o tre partiti e senza nessuna scadenza elettorale in prossimità, non riesca a portare avanti un'azione concreta di governo.

A proposito di scadenze elettorali, vi ricordate quando il giorno successivo al voto regionale dello scorso inverno, i nostri cari governanti sostennero che le campagne elettorali erano finite per un periodo sufficiente di tempo da garantire al Parlamento la possibilità di discutere e approvare provvedimenti importanti?
"Si apre la stagione delle riforme", annunciarono.
Probabilmente si trattava soltanto di una mezza stagione, di quelle che oramai non ci sono più.

sabato 13 novembre 2010

Par Condiro Dirondello

Lunedì sera il Presidente della Camera Gianfranco Fini e il segretario del PD Pierluigi Bersani saranno ospiti da Fabio Fazio e Roberto Saviano nella trasmissione "Vieni via con me".
Ospiti di parte

I loro interventi, a quanto ci è dato sapere, avverranno in momenti distinti senza porre un confronto politico trai due: prima Fini poi Bersani avranno lo spazio per un monologo, in cui ognuno parlerà dei valori della sua parte politica, rispettivamente la destra e la sinistra (e chissà che non concludano con un duetto sulle note della celebre canzone di Giorgio Gaber)

Il direttore generale Rai Mauro Masi, manco a dirlo, si oppone. Ma Masi, si sa, conta come il due di picche quando briscola è bastoni ed è lunga la lista dei suoi veti bellamente violati nelle sue reti televisive.
Il problema perciò non sussisterebbe se non fosse intervenuto anche il Presidente della Rai Paolo Garimberti, che ha invitato Fazio e Saviano a non limitarsi ad ospitare i soli Fini e Bersani:

Forte dell'appoggio dall'alto, il ringalluzzito Masi rilancia:

"Riteniamo [che l'invito] debba essere esteso allo stesso livello anche al Pdl, Lega, Udc e Idv."
Sgombrate la mente. Immaginatevi ora l'inserimento dei leader dei suddetti partiti all'interno del programma: se come detto Fini parlerà dei valori della destra e Bersani di quelli della sinistra, Bossi Casini Berlusconi e Di Pietro in quale modo potrebbero intrattenere la platea?


Gianni e Pinotto
Umbertone, per esempio, potrebbe calcare il palco decantando l'orgoglio di appartenere ad una nazione che non esiste oppure enunciando i principi fondamentali della xenofobia.
Pierferdy, invece, saprebbe intrattenere il pubblico divagando sulla morale cristiana secondo Sant'Agostino dall'alto dei suoi due matrimoni.
Il buon premier, sempre se lunedì sera sarà ancora tale, avrebbe modo di dare due consigli ai ragazzi su come rimorchiare una minorenne (pagando, s'intende), o esplicare in modo chiaro ai meno giovani il foglietto illustrativo di una scatola di viagra.
E per chiudere in grande stile: lezioni di grammatica italiana a cura del Dott. Prof. Tonino Di Pietro.


Non capisco tutte queste accuse a quel genio incompreso di Masi: una scaletta del genere avrebbe ascolti inimmaginabili, batterebbe perfino un'amichevole della nazionale di calcio.

venerdì 12 novembre 2010

Chi ricerca, trova?

Nello stesso giorno in cui l'Istituto Superiore di Sanità pubblica su PLoS One i nuovi dati sulla sperimentazione dei vaccini contro HIV e annuncia che ci vorranno ulteriori finanziamenti per portare avanti le ricerche condotte dagli staff italiani, compare anche la notizia che parte dei fondi tagliati per l'istruzione sono stati ripristinati con un emendamento alla nuova legge finanziaria.


Maestra del taglia e cuci
Vi state chiedendo dov'è la fregatura? Ebbene, il provvedimento raddoppierà i fondi da destinare agli istituti privati paritari. Quelle scuole, per farla breve, che nella grande percentuale dei casi sfornano diplomi in cambio di moneta sonante, fregandosene della qualità e della meritocrazia, dove uno studio quotidiano può essere facilmente sostituito da un assegno bancario.


Sono tutti sporchi soldi sottratti alle università, che lo scorso inverno non potevano nemmeno permettersi di accendere i riscaldamenti, e alla ricerca scientifica, che deve tirare avanti tra le defezioni di chi preferisce le maggiori opportunità offerte all'estero e la mancanza dei fondi necessari per condurre un esperimento.


Tutto lecito, per carità, si calpesta soltanto un articolo costituzionale (il trentaquattresimo), cosa volete che sia?
Ho soltanto paura che la notizia di cui sopra, ovvero che nonostante tutto la ricerca italiana riesca nonostante tutto a ottenere risultati, possa essere una buona scusa per tagliare ancora.