lunedì 28 febbraio 2011

Nel Continente Rosso

Più scene vedo arrivare dalle piazze nordafricane in fervore e più si fa strada in me l'amarezza di come certi accadimenti, identici nei loro connotati come solo la morte sa essere uguale per tutti, possano essere trattati in maniera completamente diversa.
L'Africa è un continente immenso: sarebbe sufficiente prendere una qualsiasi cartina geografica per accorgersene, allo stesso modo come basterebbe leggere un po' in giro per sapere quanti focolai di guerra insanguinano quei territori. Ma l'Occidente, si sa, ha per occhi due binocoli, che esplorano ogni cosa presente in quei cerchi di terra dove punta il suo sguardo, e che non riescono a guardare oltre le circonferenze di quel paio di lenti.
Chiarisco: io non voglio spacciarmi per fine conoscitore della storia geopolitica africana, ché bastano già i tanti finti esperti usciti alla ribalta nelle scorse settimane. E non voglio nemmeno correre l'errore di sottovalutare l'importanza delle rivolte che stanno mettendo fine ai regimi antidemocratici in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Marocco e chissà dove altro ancora.
Però ci sono altri Stati africani devastati da conflitti in quello stesso continente, molti dei quali confinanti con gli stessi Paesi che si sono guadagnati le prime pagine di politica internazionale nell'ultimo mese: il Ciad, per fare un esempio e dal quale stanno emigrando in massa verso l'Europa, o il Sudan, fresco di una secessione che difficilmente appianerà tutti i dissidi. Poi ci sono l'Etiopia, il Senegal, l'Uganda, per non parlare della Somalia che da anni è senza un qualsivoglia governo; e ancora purtroppo tante altre guerre civili che rendono l'intero continente non nero come raccontano nei libri e nelle canzoni, bensì rosso, anzi vermiglio.
Non voglio fare la morale a nessuno, perché per quello già bastano quei 30 secondi di pubblicità progresso che arrivano di tanto in tanto nelle nostre case tramite la televisione, magari a ora di pranzo facendo finta di levarci l'appetito.
Volevo solo notare come nel mondo globalizzato del terzo millennio, ancora non si riesce ad arrivare con lo sguardo oltre la riva posta di fronte al mare che bagna la nostra penisola.
Ma mi facessero il piacere.

domenica 13 febbraio 2011

Donne, non caporali

L'incredibile successo della manifestazione che oggi ha coinvolto centinaia di piazze italiane e più di un milione di cittadini in tutto il Paese ha la sua forza in un elemento raramente riscontrato prima in occasioni del genere: la semplicità.
Semplice era il messaggio da lanciare come semplici erano le persone scese per strada per rivendicarlo: non teorie per combattere la crisi e non poche radical chic (contate di persona dal Min. Gelmini), bensì cittadini qualsiasi, comuni (e non comunisti), che gridavano la propria chiara ed inequivocabile ragione.

Le donne non sono solo un oggetto creato per il divertimento degli uomini, non sono merce di scambio o strumenti di corruzione: un grido semplice e soprattutto indivisibile. Perché non c'è nessun margine di trattativa che possa portare ad una concertazione riguardanti i diritti morali (e non solo) del genere femminile, nessuna corrente interna che possa spaccare le loro pretese, nessuna presa di posizione diversa che possa prescindere dal riconsegnare la propria dignità al gentil sesso.
Ma ancora più genuini erano i protagonisti nelle piazze: donne di tutte le età, da sole o con i propri partner e talvolta anche con prole al seguito, e senza alcuna bandiera partitica. Una massa innocente, disciplinata, che non viene trascinata verso il basso come avviene di solito, quando tutte le opinioni si appiattiscono puntualmente attorno a quelle del più stupido: una folla pacifica nel suo modo di esprimersi, ma apparentemente rivoluzionaria per i segnali che vuole lanciare ad un Paese fondamentalista come il nostro per il suo maschilismo congenito.

Certamente non sono dimostrazioni di piazza come queste che fanno cadere un governo; però la speranza è che possa avviare almeno un processo di miglioramento nella mentalità e nella percezione della gente.

venerdì 11 febbraio 2011

Questione di contraddittorio

Giorno X, Giuliano Ferrara e Augustolo Minzolini si recano in udienza dal premier a Palazzo Giochi Grazioli.
Giorno X+1, lo stesso Ferrara interviene in studio  durante l'edizione delle 20 del TG1.
Il soliloquio dell'elefantino, di rado interrotto dall'ospitale conduttrice, dura 6 (sei) minuti: un'enormità di tempo considerati gli spazi esigui di un telegiornale (sempre se quello diretto da Minzolini possa ancora considerarsi tale). Un'enormità di tempo impiegata a sconfessare i puritani guardoni comunisti e difendere i gaudiosi festivi del Padrone del Consiglio dei Ministri, arrivando persino a scomodare la filosofia di Immanuel Kant pur di far quadrare il cerchio.
Ma chi nasce tondo, si sa, non può morire quadrato, tanto quanto un abuso di potere non può essere trasformato in gossip o un minorenne non può arrivare alla maggiore età prima dei diciott'anni.

Il problema sostanzialmente è questo: c'è un modo per far capire a chi governa questo Stato, in procinto di denunciare lo stesso Stato, che la televisione del solito Stato non è sua disposizione come fosse un cinegiornale fascista qualsiasi?
Coloro che si lamentano dei Ballarò e degli Annozero, dove un contraddittorio tra le parti è comunque garantito ogni sera, sono gli stessi che mandano in solitaria il teorico del berlusconismo di cui sopra sul tiggì più guardato d'Italia, oppure ritagliano sul quinto canale una rubrica fissa mattutina per il Belpietro o il Facci di turno in cui poter pontificare contro la minaccia rossa senza contraltare.

Perché chi guarda le trasmissioni di Floris o Santoro nel 90% dei casi già sa dove destinerà il suo voto in cabina elettorale; diversamente da quelle casalinghe che la mattina accendono in buonafede la televisione per avere un po' di compagnia mentre sbrigano le faccende di casa e si ritrovano il faccione e, soprattutto, il vocione del direttore di Libero che tenta di spiegargli l'inopinabile.
Non è un'eresia sostenere che politicamente sposta più mezzora di Belpietro la mattina o una telefonata di Silvio in seconda serata a Signorini piuttosto che una stagione intera di Lerner, Annunziata e Travaglio in tivvù: questi ultimi parlano ad un pubblico già fortemente politicizzato che difficilmente flotterà il suo voto da una coalizione all'altra, invece la propaganda del PdL punta agli indecisi, li va a stanare nelle loro case, dove non arrivano giornali ma soltanto la voce della D'Urso e dei suoi amici.

giovedì 10 febbraio 2011

Avocado ad interim

E puntuali arrivarono le notizie dal suo avvocato.
Che a quanto pare non è più l'on. Ghedini, impegnato a scrivere una nuova bozza sul processo breve, bensì il min. degli Esteri Franco Frattini, nominato difensore d'ufficio del PdC ad interim. Il quale annuncia un possibile ricorso a Strasburgo presso la Corte europea dei diritti dell'uomo per violazione della privacy del premier.
Eppure stavolta ero convinto che ieri Silvio c'avesse fatto partecipi della sua ennesima burlonata che non fa ridere, uno scherzo di pessimo gusto un po' come fu quello di Emanuele Filiberto e dei suoi 260 milioni di risarcimento.
Invece no, farà causa allo Stato.
Quello stesso Stato il cui nome ha campeggiato per anni sul simbolo del suo partito.
Quello stesso Stato che ha avuto (ed avrebbe ancora) il consenso, il potere e la responsabilità di cambiare, in meglio s'intende.
Quello stesso Stato che oggi più che mai si arrocca sulle solite tre torri: a) con lui, b) contro di lui, c) menefreghismo e disgusto.

Quello stesso Stato (è l'ultima, poi basta prometto) del quale ricopre la quarta carica più alta, probabilmente la più importante, di sicuro la più incisiva.
La Presidenza del Consiglio è un'istituzione dello Stato e chi ne ricopre l'incarico ne diventa parte integrante: è un concetto così semplice che mi imbarazza scriverlo.
Berlusconi oggi è un pezzo di quello stesso Stato che vuole denunciare: ma come può qualcuno arrivare a far causa a sé stesso? Delle due l'una: eccesso di onestà e autocritica oppure schizofrenia avanzata?

mercoledì 9 febbraio 2011

Avrà notizie dal mio avvocato

Il premier ha rotto gli indugi:
«Farò causa allo Stato»


Forse è la volta buona che si presenta in tribunale.

sabato 5 febbraio 2011

Irricevibilità & Irresponsabilità

Può un provvedimento presente da 17 anni nel programma di una coalizione attualmente al governo assumere nel giro di un'infornata di pizza i connotati di straordinarietà, necessità ed urgenza pretesi dall'art. 77 della Costituzione per farne un decreto legge, dopo che il medesimo è stato bocciato da una commissione bicamerale appartenente a quello stesso Parlamento che dovrà poi nel giro di 60 giorni convertirlo in legge?

Il lungo quesito qui sopra prende spunto dall'ultimo giro sul cortocircuito istituzionale innescato da questo esecutivo, l'ennesima forzatura presidenzialista tentata contro il nostro organo legislativo parlamentare, ormai sempre più inerme ed esautorato dei propri poteri.

"Irricevibile": così il federalismo 2.0 (quello municipale, dopo l'ormai accantonata versione fiscale) è stato commentato e rispedito al mittente da un incolpevole Giorgio Napolitano. Se è vero che per la nostra Costituzione il Presidente della Repubblica è irresponsabile politicamente di ogni suo atto, altrettanto irresponsabile si è dimostrato questo Consiglio dei Ministri per aver tentato una manovra simile.

prestigiatore
Calderoli minaccia avventatamente di chiedere al CdM di porre la questione di fiducia sulla votazione del provvedimento alle Camere: per un governo retto da un paio di deputati fuoriusciti dall'IdV, quello del leghista non solo è uno spauracchio da due soldi, ma potrebbe persino rivelarsi un assist estremamente ghiotto per le opposizioni.

Chi o cosa può materializzare meglio di un voto di fiducia quel "federalismo o elezioni" ripetutamente decantato da Bossi negli ultimi mesi? Dimostri una volta per tutte al "suo" "popolo" di essere capace di portare oltrepo un risultato concreto da quella Roma ladrona che lo ha visto spadroneggiare per 8 degli ultimi 10 anni come se fosse un partito d'opposizione.

O forse quel federalismo è troppo importante per le campagne elettorali del Carroccio, dove ricoprono da sempre il ruolo principale nella proposta padana, altrimenti fatta di xenofobia e secessionismo. Di fronte ad un elettorato cinico e mobile come quello italiano, la Lega potrebbe paradossalmente ottenere più consensi presentandosi alla prossime elezioni ancora una volta come coloro che otterranno il federalismo, piuttosto che vantando finalmente di essere riusciti a farlo approvare. Il dubbio sorge.

giovedì 3 febbraio 2011

Divo per una notte

Ieri su La7 dopo la visione del film Il Divo - La spettacolare vita di Giulio Andreotti, in seconda serata è andato in un onda un dibattito riguardante il potere in Italia (tranquilli, non ho alcuna intenzione di riassumervelo o aggiungere qualcosa).
Conduceva Enrico Mentana, direttore del tiggì di rete; intervenivano Paolo Mieli ex direttore del Corriere della Sera, Nicola Porro e Marco Ferrante rispettivamente giornalisti per Il Giornale e Il Riformista.

E poi, molto poi, c'era anche Umberto Ambrosoli. Non si sa che lavoro faccia (e di conseguenza neanche da chi venga pagato), non si sa per chi voti come non si sa quale sia il suo orientamento politico. Si sa soltanto che è il figlio di Giorgio Ambrosoli, l'avvocato incaricato di liquidare la Banca Privata Italiana fatto uccidere dal banchiere Sindona. Del padre, a sua volta, già sappiamo tante cose, compresa l'appartenenza ad una destra conservatrice che in Italia, in realtà, non c'è mai stata. Ma di Umberto no, non si sa proprio niente, neanche da dove venga: a sentirlo parlare non sembra neanche di questo Paese.

Interviene per primo, prendendo appena spunto dal film-biografia sul senatore a vita Andreotti, uomo accusato di essere dietro le quinte di tutto ciò che è accaduto in Italia, Guerre Puniche a parte: anche dell'omicidio del padre Giorgio, come esplicitamente insinua la pellicola.
Potrebbe abbandonarsi a qualsiasi rancorosa invettiva contro il sette volte Presidente del Consiglio o chicchessia, supportato da una qualunque tra le tante teorie complottiste fabbricate in questo Paese; e potrebbe farlo senza macchiarsi di quel senso di ridicolo che contraddistingue ad un miglio di distanza i farneticatori tricolori di turno; perché lui, il lutto, l'ha vissuto nella sua famiglia. Ed invece la sua analisi è acuta, tra le sue parole non vi è pontificazione alcuna che non sia stata certificata dalla sentenza di un giudice.

Tutto ciò appare così lontano dalla condotta di quelle fazioni che puntualmente disapprovano i tribunali ancor prima dei processi, che adottano un sistema di giustizia fatto in casa, dove i corrotti saranno espulsi dal partito solo se ritenuti tali dal partito stesso, anche contro una sentenza di primo o secondo grado. Ed altrettanto lontano anche da quella mania del complotto a tutti i costi, che indaga parallelamente su ogni aspetto e su ogni vicenda, italiana e no, sicura che ci sia sempre dell'altro dietro la versione ufficiale.
Patologie che opprimono il nostro Paese, ammesse come plausibili per chi le ha contratte dalla carente efficienza della giurisdizione italiana e dalla lunghissima tradizione di segreti o di inspiegabili verità ufficiali.
Ma c'è una giustificazione che possa valere la quotidiana delegittimazione di coloro che hanno il compito di indagare, giudicare e quanto meno provare a stabilire come stanno realmente le cose?

Mentre cercavo di darmi una risposta, ripensavo alle parole di Brecht: "sventurata la terra che ha bisogno di eroi". E ripensavo a Cuffaro, trattato come un messia per essersi presentatosi al carcere di Rebibbia per scontare una pena di 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. E per chiudere il cerchio, ripensavo nuovamente alle parole di Umberto Ambrosoli: un cittadino come tanti in un Paese con una decente coscienza civile, un alieno sbarcato da chissà dove in Italia.