lunedì 31 gennaio 2011

Lei come si pone?

Quando ci si avvia da soli per un cammino, arriva sempre prima o poi il momento in cui si avverte la necessità di avere un po' di compagnia: è la vita che te lo impone. È seguendo simili (il)logicità esistenziali che questo spazio vuole da oggi cominciare ad ospitare voci diverse da quella del suo autore, presentare ai suoi visitatori nuove opinioni ed altri punti di vista.
Il problema di come e soprattutto con chi rompere il ghiaccio non è stato da poco: l'idea che segue nasce un po' per caso, come uno scherzo tra amici.

La possibilità di intervistare l'autore dell'ultimo libro che hai letto non capita tutti i giorni, e non potevo farmela sfuggire. Il libro in questione è L'Uomo Nero, che è anche il primo romanzo giallo ad aver mai alloggiato sul comodino accanto al mio letto: ci è rimasto poco lì sopra, non più di due notti, durante quelle poche fisiologiche pause tra una pagina e l'altra.
Il merito di una lettura conclusasi così in fretta non stava nell'esiguità del racconto, che anzi superava quota 300 pagine, ma nella bravura del suo autore, capace di estrarre dai sotterranei dell'Urbe un thriller avvincente e dall'esito imprevedibile. Un registro accessibile nella sua ricercatezza ed uno stile fluido e mai autoreferenziale rendono scorrevole ogni momento della narrazione: i capitoli, brevi, con i loro continui cambi di scena, volano via uno dopo l'altro come un sacchetto di caramelle tra le mani di un bambino.
Il titolo, semplice nella sua infantile reminiscenza, è forse l'unico trascurabile difetto dell'ultimo lavoro di Luigi Sorrenti che, come forse avrete intuito, è una vecchia conoscenza di chi vi scrive.
Due vecchie conoscenze che qualche giorno fa si sono incontrate per fare due chiacchiere.

Usiamo il "tu" o il "lei"?
Questo devi deciderlo tu.

Messaggio recepito. L'Uomo Nero è la tua seconda fatica letteraria giunta diversi anni dopo il debutto con Zeus e la Luna: dove è nata l'ispirazione per questo libro e quali sensazioni accompagnano il tuo ritorno editoriale?
Zeus e la Luna non ebbe alcun tipo di successo per molti motivi, non ultimo perché probabilmente in quel libro non credevo neanche io. Infatti non feci la minima pubblicità all'opera. Però è stato un momento importante per me, di crescita e di comprensione. Ho continuato a scrivere nel corso degli anni più per me stesso che per gli altri, senza velleità editoriali, finché non è arrivato L'Uomo Nero. Il libro ha avuto una stranissima gestazione, essendo infatti nato come un romanzo su "commissione": un caro amico, proprietario di una casa editrice in cattive acque mi ha chiesto di realizzare un romanzo breve da pubblicare con lui, nel tentativo di risollevare le sue finanze. Da tempo mi affascinava l'idea di un romanzo ambientato a Roma, in cui a far da asse portante della trama fosse una specie di inquietante contrasto fra lo splendore della città ed il male che alberga nel sottosuolo. Così iniziai a buttar giù una prima bozza di quello che poi è diventato L'Uomo Nero. Nonostante nel frattempo questa piccola casa editrice abbia chiuso, ho deciso di continuare nella stesura del libro, quello che inizialmente doveva essere un classico giallo si è trasformato in qualcosa di diverso, un noir con evidenti venature della narrativa gotica; l'ho portato a termine, trasformandolo poco alla volta da romanzo breve in un vero e proprio libro.

Cosa ti ha colpito del sottosuolo dell'Urbe a tal punto da farne l'ambientazione di molti degli omicidi commessi dall'Uomo Nero?
La metropolitana di Roma è un luogo che frequento quotidianamente, abitando e lavorando nei pressi della Linea B. In metro s’incontrano tante persone, volti sconosciuti, ma che poco alla volta possono diventare familiari. Mi sono sempre divertito ad osservare queste persone, immaginare da dove vengono, dove vanno, cosa pensano, se sono felici, tristi, serene, stanche, quali fardelli si portano dietro: le loro vite insomma. La metro è un luogo a volte triste e desolante, altre volte affascinante, che ben si presta a mio parere a far da sfondo agli efferati crimini di uno psicopatico. Ambientare il libro lungo le linee della metropolitana aveva però anche un altro significato. I cunicoli che si diramano nel sottosuolo di Roma, simboleggiano quello che è il sottobosco della città, un sottobosco oscuro, misterioso, fatto da oltre duemila anni di intrighi e complotti. Basti pensare ad esempio alle origini della città, la sua fondazione avvenuta con un omicidio e poi, con il passare dei secoli, ci imbattiamo nelle pugnalate di Cesare, in Nerone, Caligola, la riforma protestante, fino ad arrivare alla Roma barocca e papalina, quella ricca e corrotta, e – dulcis in fundo – alla Roma dei giorni nostri.

La lunga storia e le antiche tradizioni di questa città sono un'eredità troppo pesante per la Roma di oggi?
Un’eredità pesantissima per qualunque città, un’eredità che Roma affronta spesso con scarsa consapevolezza del suo passato e della sua gloria, se non in maniera molto superficiale. Larga parte della popolazione romana, soprattutto le nuovissime generazioni, ignora completamente il passato della città, le sue grandezze, i suoi splendori, ma anche le sue miserie, limitandosi spesso a conoscere – e per di più superficialmente – la Roma imperiale, quella che ruotava attorno al Colosseo, la Roma dei gladiatori, in una visione distorta e iconografica, propugnataci da decine di colossal hollywoodiani.

L'intero racconto si svolge a Roma, città che non solo tratteggi nei suoi dettagli topografici, ma nella quale ti avventuri anche in un'analisi psicologica e sociale che coinvolge sia la cittadinanza che lo stesso tessuto urbano: perché proprio la Capitale e quale rilevanza assume questa caratterizzazione ai fini del racconto?
Roma si prestava bene a fare da sfondo ad un romanzo che tratta certe tematiche per una serie di motivazioni: la dicotomia fra bene e male che si respira in città ne è solo una parte. Nel libro assume una certa valenza il ruolo svolto dalla stampa nell'alimentare la psicosi collettiva: Roma ha una centralità da un punto di vista politico e sociale in Italia che ne fa una cassa di risonanza per quelle che poi sono le paure e le psicosi di un' intera nazione. Un fatto di cronaca che avviene a Roma assume sempre connotazioni particolari, diverse: si sa dove inizia e non si dove si va a finire. Perché puntualmente intervengono i vari poteri che hanno sede in città, il potere politico, quello religioso, spesso i servizi deviati e tutto viene ingigantito da quell'accanimento mediatico che trova terreno fertile nel tessuto sociale della città. E di esempi ne abbiamo in abbondanza anche solo rimanendo alla cronaca recente locale romana e nazionale.

Lo stesso titolo del libro è anche il nome con il quale i mass media identificano nel corso della storia l'ignoto serial killer, ricordando per certi versi le maratone mediatiche degli ultimi mesi per le vicende di Avetrana e Bembrate di Sotto: dove finisce la notizia di cronaca e dove inizia lo spettacolo della caccia al mostro?
Il confine è labile, è come chiedersi dove finisca il diritto di cronaca e dove inizi quello che è un vero e proprio sciacallaggio mediatico. Si potrebbe rispondere che il confine dovrebbe essere dettato dal buon senso e dal buon giusto, ma quando c'è la corsa alla notizia, quando inizia una vera e propria sfida per gli indici di ascolto e per le tirature dei giornali, il buon senso e il buon gusto vengono molto spesso messi da parte. Non è una cosa dei giorni nostri: un triste punto di partenza fu segnato con la storia di Alfredino Rampi a Vermicino nel 1981, forse il primo caso trasmesso a lungo in televisione che ha tenuto incollati milioni di persone davanti alle TV per seguirne lo svolgimento: è stato un punto di svolta, la scoperta che si potevano fare ascolti cavalcando una tragedia. Da allora è stata una discesa continua verso ciò che Giorgio Gaber chiamava cannibalismo mediatico, arrivando a definire i giornalisti "cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti e si direbbe proprio compiaciuti" e concludendo con "si buttano sul disastro umano col gusto della lacrima in primo piano".

Nel profilo che hai tracciato di Roma e dei suoi abitanti, la città diventa uno specchio dell'Italia nel suo complesso oppure assume una connotazione esclusiva?
Roma è un po' lo specchio dell'Italia, anzi, Roma è l'Italia, un'Italia all'ennesima potenza: i difetti del Paese a Roma sono più accentuati, così come anche i suoi pregi. Allo stesso modo la popolazione romana non è altro che la popolazione italiana in cui pregi e difetti sono estremizzati.

Un episodio del romanzo che vede protagonisti Roma e i suoi cittadini è il linciaggio di un extracomunitario accusato di essere il colpevole dei delitti che destabilizzano la città: qual è oggi il rapporto dei romani con gli stranieri?
Un rapporto non dissimile da quello di altre grandi città, soprattutto del nord, come Milano o Torino. Un rapporto che si basa sul contatto stretto fra persone diverse per cultura o per tradizione, da cui spesso scaturisce l'incomprensione, il rifiuto, o che finisce per sfociare nella sopportazione e finanche nel rancore. Alla base di tutto, però, c'è un forte pregiudizio che noi come popolo ci portiamo dietro nei confronti dello straniero o più in generale del diverso.

Suggestivi ed enigmatici sono i riferimenti alla religione cattoliche in alcune pagine, forse doverosi in uno scenario così legato alla cristianità ma per nulla scontati: quale rilevanza assume la religiosità nel corso della storia?
La storia si apre il giorno di Natale e si conclude il giorno di Pasqua: il lasso temporale è dunque compreso fra la nascita e la morte e la successiva resurrezione di Cristo; alcuni nomi dei protagonisti hanno chiari riferimenti religiosi e la parte conclusiva si svolge in piena veglia pasquale. A pochi metri di distanza si verificano due eventi di natura opposta: da un lato la veglia che rappresenta la vittoria del bene sul male, quindi della vita sulla morte, la vita oltre la vita; dall'altro l'ultimo delitto dell'Uomo Nero, la morte, la fine di un'esistenza. Questo contrasto fra bene e male (già usato ampiamente nella letteratura e nel cinema, basti pensare alla scena finale de Il Padrino) simboleggia il modo in cui Roma vive la presenza del Vaticano: una presenza che ha portato lustro a tutta la città, non solo dal punto di vista spirituale ma anche culturale e artistico, ma anche una presenza ingombrante e spesso invasiva sulla società e sulla vita politica del paese e della nazione.

Il Vaticano oggi ha davvero tutta questa influenza sulla società italiana?
Vorrebbe averla, e in fin dei conti ce l'ha ancora. Il vaticano politicamente in Italia sposta ancora una buona quantità di voti: di conseguenza ha una forte influenza su quella che è la vita politica e quindi sociale del Paese.

Nonostante ciò, diventa sempre più evidente la distanza tra una morale condivisa, non per forza cattolica, e la condotta dei nostri rappresentanti, non solo nel proprio ambito privato: dobbiamo definitivamente abbandonare l'aspirazione ad una classe dirigente che faccia da esempio per i cittadini?
Purtroppo ritengo che la classe dirigente sia lo specchio della nostra società. Sarò pessimista o disfattista, ma i valori che la nostra società prende come riferimento ed offre sono quelli che sono: il potere, il successo, il denaro, e qualsiasi mezzo è lecito per arrivarci. I rappresentanti politici, la classe dirigente, coloro che ci rappresentano all'estero, bene o male entro certi limiti li scegliamo noi: sono il nostro specchio, lo specchio di una società che legge poco, che inebetisce davanti alla TV, in cui non vige nessuna forma di meritocrazia e dove spesso ha la meglio il più furbo. Una classe dirigente che sia d'esempio è oggi un'utopia: a meno di un completo e radicale cambiamento, non soltanto politico ma che riguardi l'intero tessuto sociale.

Si mangia con la cultura?
Ovviamente no, chi ci riesce è particolarmente bravo e fortunato ma parliamo di una percentuale davvero minima. La cultura non nutrirà il corpo, ma nutre senz'altro lo spirito. E forse è più importante.

Le parole del Ministro dell'Economia ("Fatevi un panino con la Divina Commedia") sono sembrate denigratorie a tal proposito, mentre il Dicastero dei Beni Culturali si sta distinguendo come uno dei peggiori dai tempi dell'Unità d'Italia: c'è qualcosa che non va nella concezione delle arti e della cultura nel nostro Paese o nel nostro governo?
Dare una definizione di cultura non è mai facile, ma in qualunque modo la si intenda questa gioca un ruolo fondamentale in una società. La cultura arricchisce ma non riempie le tasche: è un freno alla volgarità dilagante, aiuta a distinguere tra ciò che è bene e ciò che è male. È uno strumento fondamentale per giudicare chi ci governa, è un riscatto dalla povertà. Da sempre i regimi totalitari rinnegano la cultura e bruciano i libri: perché dalla consapevolezza, dalla cultura, nasce la rivolta.
Ora in Italia ovviamente non siamo a questo livello, anche se sembra che ce la si stia mettendo tutta per arrivarci, e ritengo che i problemi in materia siano atavici e non riguardino esclusivamente questo governo o questo ministero dei beni culturali.
Sicuramente c’è qualcosa che non va se diamo così scarso peso a quest’aspetto che è e rimarrà sempre fondamentale per la vita di un uomo. Siamo un Paese che ha vissuto per secoli di arte e di letteratura, siamo il Paese della cultura per antonomasia, ed oggi è come se avessimo una specie di rigetto o pensassimo che possa bastare la nostra storia per non inaridirci. Purtroppo non è così.

L'Uomo Nero è un giallo noir: al di là della letteratura di genere, c'è qualche autore dal quale hai tratto ispirazione durante la sua stesura?
Non c'è un autore a cui mi ispiro, ritengo che ognuno debba scrivere com'è capace di farlo, senza tentare di imitare nessuno: ognuno ha il suo stile.

E allora quali sono i tuoi scrittori preferiti?
Bella domanda. Difficile fare una lista: per fare un paio di nomi, adoro Hemingway e Bukowski. Tra gli italiani, invece, mi piace molto De Luca.

I libri che ti hanno catturato di più?
Il vecchio e il mare per me é il libro perfetto, quello cui ogni scrittore dovrebbe tendere. Un libro breve, secco, asciutto, che riesce a tenerti ancorato alla lettura anche se l'autore parla del nulla: questa per me è l'apoteosi della scrittura, un concetto un po' perverso ma è la vera grandezza dello scrivere. Poi On the road di Kerouac, Il giovane Holden di Salinger, Chiedi alla polvere di Fante, molto di Bukowski. C'è un racconto di quest'ultimo che per me è stato un punto di svolta, si chiama La mia pazzia. Parla di una tigre sulla sua schiena del vecchio Charles, che lo obbliga a scrivere ininterrottamente, perché solo così può nutrirla, darle battaglia, ma mai sconfiggerla, perché la tigre chiederà sempre di più e non sarà mai abbastanza sazia delle sue parole. Solo grazie a questa tigre sanguinaria e battagliera, lo scrittore – ma più in generale l’artista – può crescere e migliorare. Un po’ la stessa cosa che diceva Hendrix a proposito del fuoco che ardeva dentro di lui e che lo costringeva a comporre sempre nuove note e nuove melodie. La tigre e il fuoco sono due facce della stessa medaglia ed alla fine se ci pensiamo bene è ciò che diceva anche Nietzsche: “Bisogna avere il caos dentro per partorire una stella che danzi”. Ma non vorrei divagare, tornando a Bukowski, il suo racconto, termina così: E se fra voi c'è qualcuno che si sente abbastanza matto da voler diventare scrittore, gli consiglio va' avanti, sputa in un occhio al sole, schiaccia quei tasti, è la migliore pazzia che possa esserci, i secoli chiedono aiuto, la specie aspira spasmodicamente alla luce, e all'azzardo, e alle risate. Regalateglieli”Beh, io ci ho provato!

venerdì 28 gennaio 2011

Ma che bel castello

Nel frattempo, a scanso di equivoci, il reuccio si blinda nel suo castello domestico, barricato sotto l'assedio della magia rossa operata dagli stregoni comunisti, mai così pochi come adesso ma mai così potenti. La logica regale è sempre quella: col ciufolo che lei glielo dà il potere, giusto? (minuto 4 e 25 secondi): l'idea di trovarsi ancora in una Repubblica Parlamentare nemmeno lo sfiora, d'altronde nemmeno i parlamentari stessi sembrano ricordarsene.

Anche perché finché sei un (finto) giovane, persa un'elezione puoi sempre sperare di vincere quella successiva; quando arrivi alla soglia dei 75 anni, la consapevolezza di poter essere all'ultimo giro di giostra ti sovviene e fai di tutto per non scendere di sella: oramai anche i vecchi cari sondaggi sono diventati infidi, nonostante ad oggi, giusto a titolo informativo, lo darebbero ancora come il cavallo vincente su cui puntare in primavera. Meglio non rischiare.

Dal trono parte il solito ordine. Gli eserciti realisti salgono ancora una volta sui bastioni e tra un merlo e l'altro riversano giù una nuova colata di pece bollente. Può cambiare il bersaglio all'occasione: oggi la Boccassini e Santoro, ieri Fini, l'altro ieri Boffo o Mesiano, domani chissà; ma l'obiettivo rimane sempre quello e segue la solita equazione, secondo la quale tutti hanno uno scheletro nell'armadio ergo tutti possono essere attaccati ergo siamo tutti uguali o, in alternativa, vorremmo tutti essere come lui.

Non è vero! reagisci d'istinto, quasi con un moto d'orgoglio, prima di accorgerti mesto che la vita di B è davvero il triste sogno di molti, la nascosta (?) ambizione di troppi, e che tu non puoi farci niente. Solo allora arrivi a capire che il liquido nero calato dall'alto di quelle mura non ha colpito soltanto lo sventurato di turno che ha osato ribellarsi alla corona, ma si è riversato irrimediabilmente nelle campagne fuori dal Palazzo, dove sopravvivono coloro che non contano niente.

giovedì 27 gennaio 2011

Se questo è un uomo

Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero. (Primo Michele Levi)

La storia non è maestra di niente.

mercoledì 26 gennaio 2011

Treppiedi in una Scarpa

In una Democrazia come quella italiana, la separazione dei poteri vuole che chi viene incaricato di una funzione pubblica, svolgendo il proprio compito si comporti anche da controllore di quanti parallelamente sono stati incaricati di altre funzioni pubbliche, complementari alla propria e mai concorrenti.
Il potere, inteso come autorità legittimata a decidere o influenzare le decisioni di uno Stato, non è a somma zero. Il detentore di uno dei tre poteri statali (esecutivo, legislativo e giudiziario) che interviene per sminuire chi ne esercita uno diverso nel tentativo di sottrargli ed accaparrarsi maggiore autorità, fallirà miseramente.

Perché la delegittimazione di una sola istituzione pubblica si riversa direttamente nei confronti dello Stato in quanto massimo ufficio riconosciuto dai cittadini e coinvolgerà in maniera direttamente proporzionale ogni altra istituzione, a partire da quella che avrà iniziato il processo di autodistruzione.
Un potere che controlla un altro potere non può perciò intervenire per sottrarre a quest'ultimo margini di autorità, né invaderne i confini di influenza. Il sistema dei pesi e contrappesi si regge se tutti gli incaricati di un potere adempiono al proprio compito: se una delle istituzioni preposte diventa troppo forte o troppo debole, le conseguenze coinvolgono l'intero sistema. Tali poteri sono in sintesi come i legni di uno sgabello a tre piedi: se uno di questi è troppo lungo o troppo corto, lo Stato che vi è seduto sopra cade.

Nella guerra di trincea riesplosa in questi giorni tra l'esecutivo di Berlusconi e la magistratura di Milano, vediamo affrontarsi tra loro due poteri similmente forti accaniti l'uno contro l'altro per una battaglia persa in partenza da tutti.
Se il premier dovesse dimettersi sotto i colpi dei PM milanesi, il potere giudiziario conquisterebbe un influenza abnorme sulle scelte politiche del Paese che difficilmente saprebbe controllare da solo; mentre un'ennesima sottrazione dal giudizio del tribunale per il Presidente del Consiglio significherebbe un altro destabilizzante colpo per un sistema giuridico sempre più invadente, lungo e inconcludente.
Ma non è tra questi due contendenti che nasce lo squilibrio delle nostre istituzioni, bensì dall'inarrestabile perdita di autorità del Parlamento italiano. Un Parlamento sbranato dagli altri due poteri: prima delegittimato oltre ogni suo demerito dall'inchiesta di Mani Pulite e poi sottratto sempre più spesso del suo potere legislativo da Consigli dei Ministri prodighi di decretazioni d'urgenza.
Se il Parlamento, crocevia fondamentale per le fortune di ogni Repubblica Parlamentare che si rispetti, non troverà un moto d'orgoglio e non riscatterà il suo ruolo di protagonista per la politica italiana, questi decennali tempi bui rischiano di protrarsi ancora per molto.
L'unica via percorribile è quella che ricondurrà i nostri parlamentari dalle luci degli studi televisivi ai banchi di Palazzo Madama e di Montecitorio: una volta lì, dovranno riappropriasi del propria funzione legislativa, impedire questa tacita trasformazione in atto del nostro sistema in un presidenzialismo zoppo e riassumersi personalmente quelle responsabilità da troppo tempo delegate ad un singolo, che mettendoci la faccia per tutti ha sacrificato non solo le idee, concetti ormai preistorici, ma persino i programmi di governo in cambio di un più rassicurante e meno impegnativo "ci penso io".

martedì 25 gennaio 2011

Ruby Tuesday

Questo blog (ed ovviamente il suo autore) ha il (pessimo?) vizio di sparire nei momenti più bui e di sottrarsi alle illogiche di quella caciara politichese che impone la ripetuta baraonda di accuse, sempre le stesse da anni, di una parte contro l'altra (e viceversa) come l'unico spartito rimasto alla nostra classe dirigente per adempiere l'ingrato compito della rappresentanza politica, l'unica strada per quegli intellettuali d'oggi idioti di domani per vendere la propria opinione.
Purtroppo per questi gorilla in giacca e cravatta e minigonna (con tutto il rispetto per i gorilla ma anche per le minigonne), il loro baccanale circa le sorti della Repubblica delle Banane non riesce a coprire il silenzio di una Nazione mortificata dalla disinvolta noncuranza per quei problemi quotidiani che un parlamentare, per forza di uno rimborso dieci volte superiore allo stipendio medio di un cittadino qualsiasi, non può affrontare, né concepire e quindi nemmeno risolvere.
C'è un Paese ormai logoro ed abituato a questa umiliazione governativa che fa del suo puntualmente elevato tasso di partecipazione alle urne la sua incrollabile speranza affinché qualcosa cambi, ma che al tempo stesso ha imparato da tempo e a proprie spese a provvedere a sé stesso. Perché ci sarà un motivo per cui, non soltanto nel Meridione, il familismo amorale assume così tanta importanza; e ci sarà un motivo per cui questo Paese ha il peggiore debito pubblico ed il minore debito privato d'Europa.
In attesa che si ritorni a parlare di riforme e provvedimenti anziché azzardarsi sui pronostici del prossimo ritorno alle urne, perché registrare negli ultimi 8 mesi il mesto bottino di una finanziaria e della legge Gelmini mi sembra un po' poco, soprattutto alla luce dell'ampia maggioranza che fu e dello scilipotiano governo che è adesso.
In attesa, dicevo, ascoltiamoci la solita vecchia nuova canzone:





"There's no time to lose", I heard her say
Catch your dreams before they slip away
Dying all the time
Lose your dreams and you will lose your mind
Ain't life unkind?

giovedì 13 gennaio 2011

Quarto Potere

Dimmi come è strutturato il tuo sistema televisivo e ti dirò che Paese sei.

Non voglio discutere di come i mass media, e in particolare il tubo catodico, possano influenzare, oggi come ieri, la società italiana inviando messaggi univoci sotto forma di modelli comportamentali o di informazioni, vere o false che siano, non controbattibili. Tutto ciò viene dopo.
Prima, o se volete a capo, di tutto ciò c'è chi possiede una rete televisiva. Nel caso italiano più di una rete, molte più di una.

La lenta conversione dal segnale analogico a quello digitale che sta attraversando il nostro Paese venne annunciata agli albori come una grande opportunità per aumentare la pluralità dell'offerta e le possibilità di investimenti per nuovi competitori.
Facciamo finta che gli incentivi statali stanziati dallo scorso governo di centrodestra non siano andati a favore delle imprese della famiglia Berlusconi che producevano i nuovi decoder o che vendeva a prezzi stracciati abbonamenti alla nuova piattaforma televisiva payperview, poi triplicati nel giro di qualche anno: la situazione attuale è così diversa rispetto a quella precedente al fatidico Passaggio al digitale?

Il duopolio Rai-Mediaset, minimamente infastidito da La7 in chiaro e da Sky sul satellite, si sta a sua volta trasferendo sul digitale: dove è vero che brulicano tanti nuovi canali, ma che sono quasi sempre tematici e mai generalisti e soprattutto rimangono nella stragrande maggioranza dei casi targati Rai o Mediaset.
Questo per il semplice motivo che liberalizzare di punto in bianco non significa dare a tutti le stesse opportunità. Sul nuovo segnale il duopolio non solo non si è spezzato, bensì si sta consolidando: Rai e Mediaset si sono presentate col grosso vantaggio quantificabile in anni di esperienze, di fidelizzazione con lo spettatore, ma soprattutto di introiti. E quando ciò non basta, ci pensano i tentacoli del vate di Arcore ad ostacolare i piani degli avversari.

Forse già saprete del provvedimento dell'attuale governo che nel novembre 2008 aumentò l'IVA sulla pay-tv passandola dal 10 al 20%. Invece è probabile che vi sia sfuggita la mossa da maestro di Mauro Masi, allora neo direttore generale della Rai, che nell'aprile 2009 rifiutò da Sky l'offerta di 50 milioni annui per trasmettere sul satellite il bouquet dei suoi canali satellitari.
a chi il dito negli occhi e a chi il dito in...
L'ultima marachella del B-Team salta fuori adesso che è stato rinvenuto il cadavere, ma il delitto è stato ordito e consumato mesi fa.
La vittima è Dahlia, terza incomoda sia come piattaforma digitale dietro Rai e Mediaset, sia come offerta calcistica a pagamento dietro quest'ultima e Sky, nasce nella primavera del 2009 e oggi è già costretta alla liquidazione. Caro le è costato il tentativo di intromettersi nella battaglia Mediaset-Sky, soprattutto profanando il campo di calcio sul quale si concentrano i maggiori introiti delle pay-tv.

In breve: uno dei tanti scagnozzi del premier, tale Galliani Adriano insediato oramai da anni ai vertici della Lega di Serie A, non ha avuto vita difficile quest'estate nel cambiare in corsa le regole che assegnavano i diritti per la trasmissione sul digitale delle 20 squadre, facendo in modo che Dahlia si ritrovasse senza le partite casalinghe di Fiorentina, Bologna e Palermo (per il quale aveva già messo su un canale dedicato), ovvero i bacini d'utenza maggiori detenuti fino alla scorsa stagione 2009/2010. Ciò ha comportato molti meno abbonamenti e di conseguenza meno introiti, nonostante gli sforzi portati avanti fino ad allora per implementare e migliorare la propria offerta. E soprattutto 150 dipendenti presto senza lavoro.

Ovviamente sono già pronti i piani di recupero del Ministro dello Sviluppo Economico Romani che si è già attivato nella ricerca di qualcuno trai suoi amici disposto a rilevare l'azienda, dietro la promessa di non essere più d'intralcio al capo.
Non dovesse concretizzarsi l'offerta d'acquisto, tranquilli! C'è sempre un Piano B: Mediaset si è detta disponibile ad acquisire i diritti per le partite delle squadre rimaste scoperte, ma ovviamente non è disposta a pagare nemmeno un euro, facendo passare il tutto come un favore ai tifosi rimasti senza copertura televisiva.

Ah, un'ultima nota sulla vicenda: il progetto Dahlia vedeva impegnati investimenti svedesi per circa l'80% sul totale. Nessuno si meravigli se non entrano più capitali esteri nel Bel Paese.

martedì 11 gennaio 2011

Ahi serva Italia

Volevo commentare la notizia che sta circolando in queste ultime 24 ore, confermata peraltro da alcuni sottosottotenenti del PdL, secondo la quale il nuovo partito targato Berlusconi Presidente si chiamerà Italia...



...ma non ce l'ho fatta.


P.s.: aggiunti di fianco due elenchi dei miei link preferiti (ancora in corso di aggiornamento) che spero possiate trovare anche voi di interesse.

sabato 8 gennaio 2011

Incubo di una notte di mezzo inverno

Qualche giorno fa usciva sui giornali la notizia dell'ultima incursione telefonica del nostro caro premier in una trasmissione televisiva (c'è anche il video per chi ne avesse il fegato). Stavolta il destinatario della telefonata governativa non è stato il tanto bistrattato Floris, né l'arcinemico Santoro o il compagno di merende Vespa, bensì il nuovo avanguardista dell'intrattenimento televisivo targato Mediaset: Alfonso Signorini.

Kalispera! (punto esclamativo incluso dagli autori del palinsesto e non dal sottoscritto) era effettivamente un titolo che risuonava inedito dal tubo catodico, ma portava con sé quel profumo antico che solo la lingua greca sa lasciare.
Pensando si trattasse dell'ennesimo format di dibattito preconfezionato su politica, cultura e società decisi che valeva la pena darci un'occhiata. Non speravo di imbattermi in un bis del Dottor B., né di incrociare le teorie dei migliori politologi del nostro tempo (d'altronde rimane pur sempre un programma condotto dal direttore di "Chi"), però mai avrei pensato si potesse arrivare a tanto.

Sui divani che arredavano il palco come fosse il salotto di casa sua con tanto di cucina alle spalle, il presentatore Signorini sedeva in compagnia di due stimate intellettuali comuniste (la Dott.essa Senicar Nina e l'Avv.essa Santarelli Elena), tre direttori di scriteriate redazioni di sinistra (Fede Emilio, Mimun Clemente e Brachino Claudio) ed uno dei più apprezzati cantautori italiani reduci dall'esperienza del PCI insieme alla sua compagna (D'Alessio Gigi e Tatangelo Anna).
Argomenti della discussione:
- perché il Dir. Fede ha licenziato dopo soli 6 giorni l'Avv.essa Santarelli dalla conduzione delle informazioni meteo del TG4?
- perché la Dott.essa Senicar si rifiuta di uscire a cena con il Dir. Fede?
- chi è il giornalista più antipatico con il quale avete lavorato (o, nel caso delle intellettuali sinistroidi, portato a letto)?
Nel mentre:
- intervista ad un calciatore che sta scontando 12 anni di squalifica per essere risultato positivo due volte alla cocaina (Flachi Francesco, ovviamente dipinto come un eroe);
- servizio su come ha festeggiato il suo capodanno l'Ing. Arcuri Manuela;
- balletti e stacchetti vari ed eventuali.

È mia ferma intenzione non esprimere il minimo giudizio sulla trasmissione in questione (sebbene lo si possa arguire), né rammaricarmi sul perché esista e vada in onda. Ma nel momento in cui un politico, anzi il capo del nostro governo, decide di prendere la parola in tale spazio televisivo, tutto ciò assume i connotati di argomento politico: lo assumono i flessibili corpi della Dott. essa Senicar e dell'Avv. Santarelli come lo assumono quelli genuflessi dei Dir. Fede, Mimun e Brachino.
Perché è in uno scenario simile a quello appena descritto che il nostro primo ministro, evadendo da qualsiasi domanda scomoda e sfuggendo da ogni contraltare, ha preso la parola per recitare il solito canovaccio sui comunisti, i magistrati, i giudici, la sinistra, il popolo eccetera eccetera eccetera.

Nessuna teoria, nessun mistero, nessun messaggio subliminale: e soprattutto nessun risultato da vantare nonostante 8 degli ultimi 10 anni passati a governare, bensì soltanto esserci, presentarsi, comunicare.
E ancora, inutile intervenire in un programma politico seguito al 90% da persone che un'opinione politica ce l'ha già. Meglio comparire, o anche soltanto telefonare, dove si annidano gli indecisi (legittimamente indecisi, sia chiaro): è questa la propaganda del terzo millennio.

martedì 4 gennaio 2011

Ma è un canto brasileiro

Come una canzone del buon vecchio Lucio Battisti, questa settimana la vicenda dell'omonimo pluriomicida Cesare ha scalato le hit parade mediatiche di mezzo mondo, guadagnandosi le prime posizioni nelle classifiche italiane e brasiliane.
Siccome non stiamo parlando di spartiti e parolieri alla Mogol, bensì di diritto internazionale e rapporti diplomatici, non possiamo trattare il caso dell'estradizione di Battisti come una brano che ritorna di tanto in tanto alla radio, ma affrontarlo per quello che è: un caso intricato rimasto irrisolto per anni, più volte salito alla ribalta nell'agenda politica e nell'opinione pubblica, che non si poteva affatto pretendere né sperare di sbrogliare da un mattino all'altro.

La decisione di Lula non deve cogliere impreparata l'indignazione pubblica, fino all'altro ieri così silenziosa: la scelta del governo verdeoro è la stessa da anni e Battisti rimane ancora in Brasile dov'era anche sette giorni fa. D'altra parte, però, la non novità di questa vicenda non può e non riesce a nascondere la sua caratteristica a primo impatto più evidente: l'assoluta mancanza di una motivazione plausibile, o quanto meno comprensibile, alla base della decisione di Lula e dell'Avvocatura di Stato brasileira, che parlano di rischi per  l'integrità fisica del condannato in caso di rimpatrio.

Anche andando ad analizzare tale responso in base alle conseguenze e ai benefici che può recare ai suoi attori principali, tutto ciò diventerebbe ancora più inspiegabile in quanto sarebbe impossibile trovarne l'ombra di un vincitore o almeno di qualcuno che possa ricavarne un vantaggio. Tranne ovviamente chi ne avrebbe meno diritto di tutti: il criminale in questione.
Perché ci perde Lula, che conclude nelle polemiche e nell'impopolarità (eccetto per quel manipolo di intellettuali parigini del menga contrari all'estradizione) il rispettabilissimo incarico da Presidente della sua Nazione. Ci perde il suo successore, Dilma Rousseff, che in precedenza si era schierata a favore delle ragioni italiane. Ci perde ovviamente l'Italia (tutta) ma ci perde anche il Brasile perché i due Paesi vedranno congelarsi i rapporti diplomatici tra loro e, chissà, forse anche quelli economici per una stupidissima causa. Ci perde la comunità internazionale che non aveva affatto bisogno di aggiungere una nuova gatta da pelare nel suo già difficile calendario 2011.

O forse, analizzando il tutto da un'altra prospettiva, l'inspiegabilità di questa decisione è dovuta solamente alla parzialità della nostra italica posizione. La posizione di chi non vuole sentir provenire da altre Nazioni le accuse che noi stessi lanciamo quotidianamente al nostro sistema giuridico e alle nostre strutture penitenziarie. La posizione di chi vede intaccato il proprio ruolo internazionale da un Paese, il Brasile, non più soltanto patria di calcio e favelas, ma che ha raggiunto un livello del PIL pari al nostro ed è in corsia di sorpasso grazie ad una crescita economica nell'ultimo decennio 10 volte più forte di quella italiana. Una posizione che è riuscita a ricompattare l'intero sistema partitico italiano come è recentemente accaduto soltanto con le promesse di riduzione del numero dei parlamentari o di abolizione delle province.
Sarà mica un caso che ogni volta che tutti i nostri politici sono d'accordo tra loro poi va a finire sempre in un clamoroso fiasco?