martedì 4 gennaio 2011

Ma è un canto brasileiro

Come una canzone del buon vecchio Lucio Battisti, questa settimana la vicenda dell'omonimo pluriomicida Cesare ha scalato le hit parade mediatiche di mezzo mondo, guadagnandosi le prime posizioni nelle classifiche italiane e brasiliane.
Siccome non stiamo parlando di spartiti e parolieri alla Mogol, bensì di diritto internazionale e rapporti diplomatici, non possiamo trattare il caso dell'estradizione di Battisti come una brano che ritorna di tanto in tanto alla radio, ma affrontarlo per quello che è: un caso intricato rimasto irrisolto per anni, più volte salito alla ribalta nell'agenda politica e nell'opinione pubblica, che non si poteva affatto pretendere né sperare di sbrogliare da un mattino all'altro.

La decisione di Lula non deve cogliere impreparata l'indignazione pubblica, fino all'altro ieri così silenziosa: la scelta del governo verdeoro è la stessa da anni e Battisti rimane ancora in Brasile dov'era anche sette giorni fa. D'altra parte, però, la non novità di questa vicenda non può e non riesce a nascondere la sua caratteristica a primo impatto più evidente: l'assoluta mancanza di una motivazione plausibile, o quanto meno comprensibile, alla base della decisione di Lula e dell'Avvocatura di Stato brasileira, che parlano di rischi per  l'integrità fisica del condannato in caso di rimpatrio.

Anche andando ad analizzare tale responso in base alle conseguenze e ai benefici che può recare ai suoi attori principali, tutto ciò diventerebbe ancora più inspiegabile in quanto sarebbe impossibile trovarne l'ombra di un vincitore o almeno di qualcuno che possa ricavarne un vantaggio. Tranne ovviamente chi ne avrebbe meno diritto di tutti: il criminale in questione.
Perché ci perde Lula, che conclude nelle polemiche e nell'impopolarità (eccetto per quel manipolo di intellettuali parigini del menga contrari all'estradizione) il rispettabilissimo incarico da Presidente della sua Nazione. Ci perde il suo successore, Dilma Rousseff, che in precedenza si era schierata a favore delle ragioni italiane. Ci perde ovviamente l'Italia (tutta) ma ci perde anche il Brasile perché i due Paesi vedranno congelarsi i rapporti diplomatici tra loro e, chissà, forse anche quelli economici per una stupidissima causa. Ci perde la comunità internazionale che non aveva affatto bisogno di aggiungere una nuova gatta da pelare nel suo già difficile calendario 2011.

O forse, analizzando il tutto da un'altra prospettiva, l'inspiegabilità di questa decisione è dovuta solamente alla parzialità della nostra italica posizione. La posizione di chi non vuole sentir provenire da altre Nazioni le accuse che noi stessi lanciamo quotidianamente al nostro sistema giuridico e alle nostre strutture penitenziarie. La posizione di chi vede intaccato il proprio ruolo internazionale da un Paese, il Brasile, non più soltanto patria di calcio e favelas, ma che ha raggiunto un livello del PIL pari al nostro ed è in corsia di sorpasso grazie ad una crescita economica nell'ultimo decennio 10 volte più forte di quella italiana. Una posizione che è riuscita a ricompattare l'intero sistema partitico italiano come è recentemente accaduto soltanto con le promesse di riduzione del numero dei parlamentari o di abolizione delle province.
Sarà mica un caso che ogni volta che tutti i nostri politici sono d'accordo tra loro poi va a finire sempre in un clamoroso fiasco?

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