Non voglio discutere di come i mass media, e in particolare il tubo catodico, possano influenzare, oggi come ieri, la società italiana inviando messaggi univoci sotto forma di modelli comportamentali o di informazioni, vere o false che siano, non controbattibili. Tutto ciò viene dopo.
Prima, o se volete a capo, di tutto ciò c'è chi possiede una rete televisiva. Nel caso italiano più di una rete, molte più di una.
La lenta conversione dal segnale analogico a quello digitale che sta attraversando il nostro Paese venne annunciata agli albori come una grande opportunità per aumentare la pluralità dell'offerta e le possibilità di investimenti per nuovi competitori.
Facciamo finta che gli incentivi statali stanziati dallo scorso governo di centrodestra non siano andati a favore delle imprese della famiglia Berlusconi che producevano i nuovi decoder o che vendeva a prezzi stracciati abbonamenti alla nuova piattaforma televisiva payperview, poi triplicati nel giro di qualche anno: la situazione attuale è così diversa rispetto a quella precedente al fatidico Passaggio al digitale?
Il duopolio Rai-Mediaset, minimamente infastidito da La7 in chiaro e da Sky sul satellite, si sta a sua volta trasferendo sul digitale: dove è vero che brulicano tanti nuovi canali, ma che sono quasi sempre tematici e mai generalisti e soprattutto rimangono nella stragrande maggioranza dei casi targati Rai o Mediaset.
Questo per il semplice motivo che liberalizzare di punto in bianco non significa dare a tutti le stesse opportunità. Sul nuovo segnale il duopolio non solo non si è spezzato, bensì si sta consolidando: Rai e Mediaset si sono presentate col grosso vantaggio quantificabile in anni di esperienze, di fidelizzazione con lo spettatore, ma soprattutto di introiti. E quando ciò non basta, ci pensano i tentacoli del vate di Arcore ad ostacolare i piani degli avversari.
Forse già saprete del provvedimento dell'attuale governo che nel novembre 2008 aumentò l'IVA sulla pay-tv passandola dal 10 al 20%. Invece è probabile che vi sia sfuggita la mossa da maestro di Mauro Masi, allora neo direttore generale della Rai, che nell'aprile 2009 rifiutò da Sky l'offerta di 50 milioni annui per trasmettere sul satellite il bouquet dei suoi canali satellitari.
a chi il dito negli occhi e a chi il dito in... |
La vittima è Dahlia, terza incomoda sia come piattaforma digitale dietro Rai e Mediaset, sia come offerta calcistica a pagamento dietro quest'ultima e Sky, nasce nella primavera del 2009 e oggi è già costretta alla liquidazione. Caro le è costato il tentativo di intromettersi nella battaglia Mediaset-Sky, soprattutto profanando il campo di calcio sul quale si concentrano i maggiori introiti delle pay-tv.
In breve: uno dei tanti scagnozzi del premier, tale Galliani Adriano insediato oramai da anni ai vertici della Lega di Serie A, non ha avuto vita difficile quest'estate nel cambiare in corsa le regole che assegnavano i diritti per la trasmissione sul digitale delle 20 squadre, facendo in modo che Dahlia si ritrovasse senza le partite casalinghe di Fiorentina, Bologna e Palermo (per il quale aveva già messo su un canale dedicato), ovvero i bacini d'utenza maggiori detenuti fino alla scorsa stagione 2009/2010. Ciò ha comportato molti meno abbonamenti e di conseguenza meno introiti, nonostante gli sforzi portati avanti fino ad allora per implementare e migliorare la propria offerta. E soprattutto 150 dipendenti presto senza lavoro.
Ovviamente sono già pronti i piani di recupero del Ministro dello Sviluppo Economico Romani che si è già attivato nella ricerca di qualcuno trai suoi amici disposto a rilevare l'azienda, dietro la promessa di non essere più d'intralcio al capo.
Non dovesse concretizzarsi l'offerta d'acquisto, tranquilli! C'è sempre un Piano B: Mediaset si è detta disponibile ad acquisire i diritti per le partite delle squadre rimaste scoperte, ma ovviamente non è disposta a pagare nemmeno un euro, facendo passare il tutto come un favore ai tifosi rimasti senza copertura televisiva.
Ah, un'ultima nota sulla vicenda: il progetto Dahlia vedeva impegnati investimenti svedesi per circa l'80% sul totale. Nessuno si meravigli se non entrano più capitali esteri nel Bel Paese.
è giusto bravo miguel
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