domenica 20 marzo 2011

Democrazia™

Giunti al punto in cui i rivoltosi libici non trovano più le forze necessarie per rovesciare il regime di Gheddafi ed instaurare un'imitazione artigianale di quel sistema democratico che tanto piace agli occidentali che fanno il tifo per loro (tranne, è il caso di dirlo, quando si recano a rifornire il serbatoio della propria auto), è arrivato il momento per i supereroi della finanza creativa di scendere in campo per sconfiggere i cattivi ed esportare su nuovi mercati, pardon Paesi, il loro brand(y) più venduto al mondo: Democrazia™*.

Ricordarsene prima di dire o fare altri danni
Soltanto il 30 agosto scorso, in occasione della giornata dell'amicizia italo-libica, il dittatore del deserto veniva accolto in Italia dal nostro Presidente del Consiglio con tutti gli onori del caso. Ieri, a distanza di neanche un anno (ma che dico? di nemmeno sette mesi), il nostro caro premier che osò baciare la mano di quel criminale, ha messo a disposizione delle forze alleate basi militari e aeroportuali per i bombardamenti su Tripoli. Difesa della popolazione civile è lo scopo ufficiale della missione Odyssey Dawn, come è stata battezzata: ovvero l'unica soluzione possibile tra gli intricati cavilli degli accordi multilaterali in essere, che vietano ingerenze da parte di Stati terzi nei conflitti di attribuzione del potere tra rivoltosi e governo in carica, ma consentono alle altre Nazioni di intervenire in caso di crimini commessi o paventati contro l'umanità.

Prendendo per buono e ammirevole l'obiettivo prefissato dell'intervento e facendo finta di non sapere da dove provengano le armi imbracciate dai ribelli che dall'esercito di Gheddafi, né chi li abbia addestrati, sono tre gli interrogativi che spezzano l'incoerenza delle ragioni interventiste:
Attaccando Tripoli per difendere il diritto alla vita dei civili, alcuni di loro non verranno comunque privati dell'esistenza stessa?
Se è vero che l'obiettivo è di impedire che Gheddafi possa effettuare ritorsioni contro gli insorti, quanto a lungo pensano di dover bombardare quei territori?
Se stanno così a cuore i diritti umani delle popolazioni minacciate dalla guerra, perché le Nazioni Unite non intervengono anche negli altri scenari di emergenza umanitaria?

Io mi rendo conto che le persone pacifiche e non violente di questo mondo debbano essere sempre più costrette a rinchiudersi sull'isola di Utopia, ma non credo sia chiedere troppo ai sanguinolenti di turno di smettere la maschera di ipocrisia dal volto e dire le cose come stanno: petrolio e armi sono i mercati su cui si basa l'intera economia occidentale, perciò non fingete una carità che non vi appartiene ché il mondo, quello che definite barbaro e da civilizzare, vi sarà immensamente grato.

*Democrazia™ è un prodotto Occidente S.p.A.: tutti i diritti sono riservati e protetti da copyright. La riproduzione totale o parziale a scopi non commerciali sarà perseguita secondo i termini di legge.

giovedì 17 marzo 2011

150 anni e non sentirli

Non ho mai condiviso l'esaltazione generale per le cifre tonde: sono utili, certo, soprattutto quando arrivi alla cassa del supermercato, ma non ho mai compreso, e di certo non lo comprenderò oggi, perché un anniversario giunto ad un numero di anni che finisce con 0 debba essere ricordato con più vigore del solito. D'altronde non ho neanche mai compreso perché di qualsiasi evento, bisogna ricordarsene soltanto quando arrivano date prestabilite.
Soltanto lo scorso anno potevamo notare come i balconi delle nostre case sfoggiassero un numero maggiore di tricolori durante le settimane dei mondiali in Sudafrica, piuttosto che durante la Festa della Repubblica: essere italiani di questi tempi è davvero difficile.
Oltre ad amare le terre dove sei nato e/o cresciuto, oltre ad elogiare la lingua che parli, oltre ad ammirare l'arte ed i paesaggi che ti circondano, oltre a degustare la cucina, conservare e ricordare i costumi e le tradizioni dei tuoi avi, oltre a tifare per la nazionale di calcio anche quando ci sono in campo Pepe e Iaquinta, la Patria ti chiede un ultimo sforzo: quello di sentirsi italiano.
Uno sforzo faticoso, costrittivo, quantunque inutile: perché rivendicare qualcosa che hai già, qualcosa che per fortuna o purtroppo sei già? Essere una nazione è alla base dell'autodeterminazione di ogni popolo che diventa Stato, come successe agli italiani esattamente 150 anni fa; ma sentirsi una nazione a cosa serve? Troppe volte nel corso dei secoli il sentimento nazionalista, dietro al quale si nascondeva puntualmente il bieco calcolo dei potenti, è stato il vero oppio somministrato ai popoli per trascinare gli eserciti in futili guerre.
Il nazionalismo accentua le differenze, ci mettere sulla difensiva, ci rende aggressivi ed oggi più che mai, in un mondo globale e - nel bene e nel male - globalizzato, è un errore in cui non si può più cadere.

Perciò oggi come ieri e come lo scorso anno, d'estate sdraiato sul lettino in spiaggia o d'inverno seduto sui gradini del centro con la faccia al vento, mi ritengo fortunato di essere nato e cresciuto in Italia, grato di essere un italiano libero di non doversi sentire chissà cosa per essere più felice.
Auguri Italia.

venerdì 11 marzo 2011

Quando la terra trema


Quando accadono catastrofi come quella che ha colpito oggi il Giappone, non si può non rimanere basiti dinanzi alla tragicità delle vite spezzate da un momento all'altro, per quanto più o meno numerose possano essere; ma allo stesso tempo non ci si può esimere dal considerare che quelle morti non sono causate dall'arbitrarietà degli eventi naturali. O almeno non direttamente.
Nella stragrande maggioranza dei casi, le morti avvenute durante un terremoto sono dovute ai crolli e ai cedimenti delle costruzioni artificiali, pertanto solo indirettamente è responsabile la mano di madre natura mentre il primo colpevole della sua sorte, per quanto in buonafede, è l'uomo con il suo insediamento.
C'è di più: il fattore di imprevedibilità degli eventi sismici è realmente tale solo per metà: se da una parte è vero che il progresso tecnologico non ci permettere ancora oggi di conoscere per tempo quando avverranno tali fenomeni, dall'altra parte è altrettanto acclamato che gli studi scientifici ci permettono oggi di sapere zona per zona ed in modo dettagliato, seppur entro certi limiti, quali sono i territori a maggior rischio sismico.
E se pure non bastasse la ricerca sismografica, rimarrebbe pur sempre utile l'esperienza storica. In Giappone sono consapevoli della pericolosità della terra in cui vivono e delle acque su cui affacciano le loro città ma non si sottomettono allo spauracchio della natura matrigna e non si rassegnano all'imperscrutabilità degli eventi ambientali.
Il paragone con il Giappone sull'adeguatezza delle misure antisismiche nel territorio italiano fu sulla bocca di tutti l'indomani del 6 Aprile di due anni fa, giorno della tragedia dell'Aquila. Quella che ci ha svegliato stamane potrebbe essere la tristissima conferma dell'arretratezza del nostro Paese rispetto ad un altro che, esattamente come noi, è a forte rischio sismico ed è inserito tra gli otto Stati più sviluppati del pianeta.
La differenza di tre gradi fatta segnare sulla scala Richter dal terremoto che colpì la provincia aquilana (5,9) ed il cataclisma di oggi a Sendai (8,9), combinata al numero di vittime registrate (308 in Abruzzo, fortunatamente ancora sotto il centinaio tra le coste giapponesi sul Pacifico), rendono ancor più l'idea di quanti progressi.
La tristezza della catastrofe di oggi fa riaffiorare i brutti ricordi di due anni fa, lo sdegno per le risate di chi avrebbe approfittato di quello stato di emergenza nazionale e soprattutto lo sgomento per il pragmatismo da quattro soldi con il quale la nostra classe dirigente affronta la questione dell'adeguamento antisismico: intervenire dopo una tragedia in una zona circoscritta del Paese costa meno di una progetto di riqualificazione su tutto il territorio prima che il disastro avvenga. Semplicemente mostruoso.

Infine ci sarebbe da parlare dei rischi per le centrali nucleari in casi di eventi del genere, che il governo italiano sembra prendere del tutto alla leggera: ma questa è un'altra storia.