martedì 17 maggio 2011

Analisi Amministrative 2011, part I

Il primo turno delle elezioni amministrative 2011 segna, al netto di qualsiasi discorso localistico, la sconfitta personale di Silvio Berlusconi.
Il premier c'ha messo la faccia nei due comuni al voto più importanti, due città, Napoli e Milano, tanto diverse tra loro quanto nevralgiche per le macroregioni di cui si ergono a capitale. Ed in entrambi i casi, sebbene la questione non si sia risolta già al primo turno (come nel caso delle altre due maggiori città in gioco in questa tornata, ovvero Torino e Bologna confermate al centrosinistra) e sia ancora possibile una rimonta del centrodestra, il referendum popolare sul premier, sulla sua persona e a debita distanza sul suo operato, ha avuto un risultato negativo.

Il dato di Napoli è se vogliamo il più sorprendente: il centrosinistra negli ultimi 20 anni, tra Capoluogo e Regione, ha fatto di tutto con il mostro a due teste Bassolino-Iervolino per perdere nell'ultimo lustro tutto il consenso guadagnatosi nel decennio precedente. Non stupì nessuno la sonante sconfitta della coalizione di centrosinistra alle Regionali 2009, come non avrebbe stupito nessuno una vittoria al primo turno del candidato sindaco del Pdl Gianni Lettieri. L'emergenza rifiuti e non solo quella erano responsabilità esclusive della classe dirigente partenopea del PD e dei suoi alleati; come se non bastasse il PD è stato coinvolto in uno scandalo elettorale alle primarie che bene non ha fatto all'ambiente. Dunque la logica conseguenza non poteva, anzi, non doveva essere altro che un cambio al timone della città.
Ma qui si intromette il Presidente del Consiglio, che ci mette la faccia ma soprattutto la voce: con i suoi proclami e le sue promesse non mantenute non ha fatto altro negli ultimi tre anni che sottrarre il centrosinistra delle molte e meritate croci della catastrofe sui rifiuti, per puntarle inesorabilmente sulla propria persona e sulla lista che porta il suo nome.
Lettieri è sì il candidato sindaco con più voti del lotto, ma ottiene soltanto con il 38,53% ed andrà al secondo turno con Luigi De Magistris, che con il 27,5% vince la sfida tutta interna al centrosinistra con il piddino Morcone. Vero è che il ballottaggio risulta essere sempre una partita del tutto nuova rispetto alla prima chiamata elettorale, ma ci sono un paio di dati che suggeriscono una posizione di vantaggio per l'ex magistrato dell'Idv.
Il primo è che, per quanto indicativi, sommando le percentuali delle liste del centrosinistra, con il 46,65% dei voti De Magistris potrà partire da un bacino elettorale più cospicuo rispetto a quello del suo concorrente del Pdl. Il secondo dato è quello del cospicuo voto disgiunto che ha visto favorire il candidato dell'Idv (con un differenziale di oltre 10 punti percentuali tra i totali del candidato sindaco ed i totali delle liste collegate) come nessun'altro sulla ribalta nazionale rilevante di questa tornata elettorale.

Milano invece presentava uno scenario molto diverso, per certi versi opposto. La città è indiscutibilmente una roccaforte del centrodestra, ma per quanto gli ultimi cinque anni di gestione da parte di Letizia Moratti siano stati piuttosto discutibili, era difficilmente ipotizzabile un simile sorpasso al primo turno: la candidata del Pdl+Lega si ferma al 41,58%, notevolmente dietro l'esponente del centrosinistra Giuliano Pisapia che raggiunte il 48,04%.
Anche qui Berlusconi ci ha messo tutto sé stesso per spostare quante più luci della contesa possibili sulla sua figura, forse in modo opportunistico visto il malgoverno locale della Moratti, ma dirottandole su una malapolitica ancora più evidente. Dalle polemiche che lo coinvolgevano più o meno direttamente sulle BR nella magistratura alla gaffe della sua candidata nei confronti del suo avversario più accreditato, passando per il proprio nome messo in bella mostra come capolista per i consiglieri comunali, i numeri hanno bocciato il premier, la gestione del suo partito a livello non solo locale ma anche nazionale. E proprio sul numero delle preferenze personali che vi è la debacle più evidente per il Cav., dove dalle 53.000 della scorsa tornata è retrocesso a meno di 28.000 schede che esprimono il suo nome.
La città non è ancora definitivamente persa, al ballottaggio come già detto può accadere ancora di tutto (sebbene i dati dei voti disgiunti non danno buoni indizi per la Moratti, penalizzata anche in questo dato), ma la sconfitta milanese "in sospeso" ha ancora più il sapore della beffa per il PdC se si pensa al fatto che possa avvenire contro la nemesi di quasi tutto ciò che Berlusconi tenta di demonizzare da quando è entrato in politica.
Giuliano Pisapia è infatti un comunista, un giurista, uno scrittore e persino un monogamo. Roba da non crederci.

martedì 10 maggio 2011

Comitatologia

"I leader della sinistra sono sempre pessimisti, anzi incazzati. Scusate, ma ogni tanto sfodero le lingue e vi faccio vedere che uso l'inglese. Quando loro vanno in bagno, e non è che ci vadano spesso, visto che si lavano poco, e si guardano allo specchio per farsi la barba, si spaventano da soli."
(Silvio Berlusconi, Un comizio a Milano)

"Prima regola del dibattito: mai discutere con uno stupido, la gente potrebbe non notare la differenza."
(Arthur Bloch, La Legge di Murphy)


...e nel caso in cui lo stupido in questione sia il Primo Ministro del tuo Paese che si fa?

venerdì 6 maggio 2011

Culo e Camicia

La serietà di una classe politica riassunta nello charme di un capo d'abbigliamento.
Roberto Formigoni, Presidente della Regione Lombardia, ieri sera ad AnnoZero

lunedì 2 maggio 2011

domenica 20 marzo 2011

Democrazia™

Giunti al punto in cui i rivoltosi libici non trovano più le forze necessarie per rovesciare il regime di Gheddafi ed instaurare un'imitazione artigianale di quel sistema democratico che tanto piace agli occidentali che fanno il tifo per loro (tranne, è il caso di dirlo, quando si recano a rifornire il serbatoio della propria auto), è arrivato il momento per i supereroi della finanza creativa di scendere in campo per sconfiggere i cattivi ed esportare su nuovi mercati, pardon Paesi, il loro brand(y) più venduto al mondo: Democrazia™*.

Ricordarsene prima di dire o fare altri danni
Soltanto il 30 agosto scorso, in occasione della giornata dell'amicizia italo-libica, il dittatore del deserto veniva accolto in Italia dal nostro Presidente del Consiglio con tutti gli onori del caso. Ieri, a distanza di neanche un anno (ma che dico? di nemmeno sette mesi), il nostro caro premier che osò baciare la mano di quel criminale, ha messo a disposizione delle forze alleate basi militari e aeroportuali per i bombardamenti su Tripoli. Difesa della popolazione civile è lo scopo ufficiale della missione Odyssey Dawn, come è stata battezzata: ovvero l'unica soluzione possibile tra gli intricati cavilli degli accordi multilaterali in essere, che vietano ingerenze da parte di Stati terzi nei conflitti di attribuzione del potere tra rivoltosi e governo in carica, ma consentono alle altre Nazioni di intervenire in caso di crimini commessi o paventati contro l'umanità.

Prendendo per buono e ammirevole l'obiettivo prefissato dell'intervento e facendo finta di non sapere da dove provengano le armi imbracciate dai ribelli che dall'esercito di Gheddafi, né chi li abbia addestrati, sono tre gli interrogativi che spezzano l'incoerenza delle ragioni interventiste:
Attaccando Tripoli per difendere il diritto alla vita dei civili, alcuni di loro non verranno comunque privati dell'esistenza stessa?
Se è vero che l'obiettivo è di impedire che Gheddafi possa effettuare ritorsioni contro gli insorti, quanto a lungo pensano di dover bombardare quei territori?
Se stanno così a cuore i diritti umani delle popolazioni minacciate dalla guerra, perché le Nazioni Unite non intervengono anche negli altri scenari di emergenza umanitaria?

Io mi rendo conto che le persone pacifiche e non violente di questo mondo debbano essere sempre più costrette a rinchiudersi sull'isola di Utopia, ma non credo sia chiedere troppo ai sanguinolenti di turno di smettere la maschera di ipocrisia dal volto e dire le cose come stanno: petrolio e armi sono i mercati su cui si basa l'intera economia occidentale, perciò non fingete una carità che non vi appartiene ché il mondo, quello che definite barbaro e da civilizzare, vi sarà immensamente grato.

*Democrazia™ è un prodotto Occidente S.p.A.: tutti i diritti sono riservati e protetti da copyright. La riproduzione totale o parziale a scopi non commerciali sarà perseguita secondo i termini di legge.

giovedì 17 marzo 2011

150 anni e non sentirli

Non ho mai condiviso l'esaltazione generale per le cifre tonde: sono utili, certo, soprattutto quando arrivi alla cassa del supermercato, ma non ho mai compreso, e di certo non lo comprenderò oggi, perché un anniversario giunto ad un numero di anni che finisce con 0 debba essere ricordato con più vigore del solito. D'altronde non ho neanche mai compreso perché di qualsiasi evento, bisogna ricordarsene soltanto quando arrivano date prestabilite.
Soltanto lo scorso anno potevamo notare come i balconi delle nostre case sfoggiassero un numero maggiore di tricolori durante le settimane dei mondiali in Sudafrica, piuttosto che durante la Festa della Repubblica: essere italiani di questi tempi è davvero difficile.
Oltre ad amare le terre dove sei nato e/o cresciuto, oltre ad elogiare la lingua che parli, oltre ad ammirare l'arte ed i paesaggi che ti circondano, oltre a degustare la cucina, conservare e ricordare i costumi e le tradizioni dei tuoi avi, oltre a tifare per la nazionale di calcio anche quando ci sono in campo Pepe e Iaquinta, la Patria ti chiede un ultimo sforzo: quello di sentirsi italiano.
Uno sforzo faticoso, costrittivo, quantunque inutile: perché rivendicare qualcosa che hai già, qualcosa che per fortuna o purtroppo sei già? Essere una nazione è alla base dell'autodeterminazione di ogni popolo che diventa Stato, come successe agli italiani esattamente 150 anni fa; ma sentirsi una nazione a cosa serve? Troppe volte nel corso dei secoli il sentimento nazionalista, dietro al quale si nascondeva puntualmente il bieco calcolo dei potenti, è stato il vero oppio somministrato ai popoli per trascinare gli eserciti in futili guerre.
Il nazionalismo accentua le differenze, ci mettere sulla difensiva, ci rende aggressivi ed oggi più che mai, in un mondo globale e - nel bene e nel male - globalizzato, è un errore in cui non si può più cadere.

Perciò oggi come ieri e come lo scorso anno, d'estate sdraiato sul lettino in spiaggia o d'inverno seduto sui gradini del centro con la faccia al vento, mi ritengo fortunato di essere nato e cresciuto in Italia, grato di essere un italiano libero di non doversi sentire chissà cosa per essere più felice.
Auguri Italia.

venerdì 11 marzo 2011

Quando la terra trema


Quando accadono catastrofi come quella che ha colpito oggi il Giappone, non si può non rimanere basiti dinanzi alla tragicità delle vite spezzate da un momento all'altro, per quanto più o meno numerose possano essere; ma allo stesso tempo non ci si può esimere dal considerare che quelle morti non sono causate dall'arbitrarietà degli eventi naturali. O almeno non direttamente.
Nella stragrande maggioranza dei casi, le morti avvenute durante un terremoto sono dovute ai crolli e ai cedimenti delle costruzioni artificiali, pertanto solo indirettamente è responsabile la mano di madre natura mentre il primo colpevole della sua sorte, per quanto in buonafede, è l'uomo con il suo insediamento.
C'è di più: il fattore di imprevedibilità degli eventi sismici è realmente tale solo per metà: se da una parte è vero che il progresso tecnologico non ci permettere ancora oggi di conoscere per tempo quando avverranno tali fenomeni, dall'altra parte è altrettanto acclamato che gli studi scientifici ci permettono oggi di sapere zona per zona ed in modo dettagliato, seppur entro certi limiti, quali sono i territori a maggior rischio sismico.
E se pure non bastasse la ricerca sismografica, rimarrebbe pur sempre utile l'esperienza storica. In Giappone sono consapevoli della pericolosità della terra in cui vivono e delle acque su cui affacciano le loro città ma non si sottomettono allo spauracchio della natura matrigna e non si rassegnano all'imperscrutabilità degli eventi ambientali.
Il paragone con il Giappone sull'adeguatezza delle misure antisismiche nel territorio italiano fu sulla bocca di tutti l'indomani del 6 Aprile di due anni fa, giorno della tragedia dell'Aquila. Quella che ci ha svegliato stamane potrebbe essere la tristissima conferma dell'arretratezza del nostro Paese rispetto ad un altro che, esattamente come noi, è a forte rischio sismico ed è inserito tra gli otto Stati più sviluppati del pianeta.
La differenza di tre gradi fatta segnare sulla scala Richter dal terremoto che colpì la provincia aquilana (5,9) ed il cataclisma di oggi a Sendai (8,9), combinata al numero di vittime registrate (308 in Abruzzo, fortunatamente ancora sotto il centinaio tra le coste giapponesi sul Pacifico), rendono ancor più l'idea di quanti progressi.
La tristezza della catastrofe di oggi fa riaffiorare i brutti ricordi di due anni fa, lo sdegno per le risate di chi avrebbe approfittato di quello stato di emergenza nazionale e soprattutto lo sgomento per il pragmatismo da quattro soldi con il quale la nostra classe dirigente affronta la questione dell'adeguamento antisismico: intervenire dopo una tragedia in una zona circoscritta del Paese costa meno di una progetto di riqualificazione su tutto il territorio prima che il disastro avvenga. Semplicemente mostruoso.

Infine ci sarebbe da parlare dei rischi per le centrali nucleari in casi di eventi del genere, che il governo italiano sembra prendere del tutto alla leggera: ma questa è un'altra storia.

lunedì 28 febbraio 2011

Nel Continente Rosso

Più scene vedo arrivare dalle piazze nordafricane in fervore e più si fa strada in me l'amarezza di come certi accadimenti, identici nei loro connotati come solo la morte sa essere uguale per tutti, possano essere trattati in maniera completamente diversa.
L'Africa è un continente immenso: sarebbe sufficiente prendere una qualsiasi cartina geografica per accorgersene, allo stesso modo come basterebbe leggere un po' in giro per sapere quanti focolai di guerra insanguinano quei territori. Ma l'Occidente, si sa, ha per occhi due binocoli, che esplorano ogni cosa presente in quei cerchi di terra dove punta il suo sguardo, e che non riescono a guardare oltre le circonferenze di quel paio di lenti.
Chiarisco: io non voglio spacciarmi per fine conoscitore della storia geopolitica africana, ché bastano già i tanti finti esperti usciti alla ribalta nelle scorse settimane. E non voglio nemmeno correre l'errore di sottovalutare l'importanza delle rivolte che stanno mettendo fine ai regimi antidemocratici in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Marocco e chissà dove altro ancora.
Però ci sono altri Stati africani devastati da conflitti in quello stesso continente, molti dei quali confinanti con gli stessi Paesi che si sono guadagnati le prime pagine di politica internazionale nell'ultimo mese: il Ciad, per fare un esempio e dal quale stanno emigrando in massa verso l'Europa, o il Sudan, fresco di una secessione che difficilmente appianerà tutti i dissidi. Poi ci sono l'Etiopia, il Senegal, l'Uganda, per non parlare della Somalia che da anni è senza un qualsivoglia governo; e ancora purtroppo tante altre guerre civili che rendono l'intero continente non nero come raccontano nei libri e nelle canzoni, bensì rosso, anzi vermiglio.
Non voglio fare la morale a nessuno, perché per quello già bastano quei 30 secondi di pubblicità progresso che arrivano di tanto in tanto nelle nostre case tramite la televisione, magari a ora di pranzo facendo finta di levarci l'appetito.
Volevo solo notare come nel mondo globalizzato del terzo millennio, ancora non si riesce ad arrivare con lo sguardo oltre la riva posta di fronte al mare che bagna la nostra penisola.
Ma mi facessero il piacere.

domenica 13 febbraio 2011

Donne, non caporali

L'incredibile successo della manifestazione che oggi ha coinvolto centinaia di piazze italiane e più di un milione di cittadini in tutto il Paese ha la sua forza in un elemento raramente riscontrato prima in occasioni del genere: la semplicità.
Semplice era il messaggio da lanciare come semplici erano le persone scese per strada per rivendicarlo: non teorie per combattere la crisi e non poche radical chic (contate di persona dal Min. Gelmini), bensì cittadini qualsiasi, comuni (e non comunisti), che gridavano la propria chiara ed inequivocabile ragione.

Le donne non sono solo un oggetto creato per il divertimento degli uomini, non sono merce di scambio o strumenti di corruzione: un grido semplice e soprattutto indivisibile. Perché non c'è nessun margine di trattativa che possa portare ad una concertazione riguardanti i diritti morali (e non solo) del genere femminile, nessuna corrente interna che possa spaccare le loro pretese, nessuna presa di posizione diversa che possa prescindere dal riconsegnare la propria dignità al gentil sesso.
Ma ancora più genuini erano i protagonisti nelle piazze: donne di tutte le età, da sole o con i propri partner e talvolta anche con prole al seguito, e senza alcuna bandiera partitica. Una massa innocente, disciplinata, che non viene trascinata verso il basso come avviene di solito, quando tutte le opinioni si appiattiscono puntualmente attorno a quelle del più stupido: una folla pacifica nel suo modo di esprimersi, ma apparentemente rivoluzionaria per i segnali che vuole lanciare ad un Paese fondamentalista come il nostro per il suo maschilismo congenito.

Certamente non sono dimostrazioni di piazza come queste che fanno cadere un governo; però la speranza è che possa avviare almeno un processo di miglioramento nella mentalità e nella percezione della gente.

venerdì 11 febbraio 2011

Questione di contraddittorio

Giorno X, Giuliano Ferrara e Augustolo Minzolini si recano in udienza dal premier a Palazzo Giochi Grazioli.
Giorno X+1, lo stesso Ferrara interviene in studio  durante l'edizione delle 20 del TG1.
Il soliloquio dell'elefantino, di rado interrotto dall'ospitale conduttrice, dura 6 (sei) minuti: un'enormità di tempo considerati gli spazi esigui di un telegiornale (sempre se quello diretto da Minzolini possa ancora considerarsi tale). Un'enormità di tempo impiegata a sconfessare i puritani guardoni comunisti e difendere i gaudiosi festivi del Padrone del Consiglio dei Ministri, arrivando persino a scomodare la filosofia di Immanuel Kant pur di far quadrare il cerchio.
Ma chi nasce tondo, si sa, non può morire quadrato, tanto quanto un abuso di potere non può essere trasformato in gossip o un minorenne non può arrivare alla maggiore età prima dei diciott'anni.

Il problema sostanzialmente è questo: c'è un modo per far capire a chi governa questo Stato, in procinto di denunciare lo stesso Stato, che la televisione del solito Stato non è sua disposizione come fosse un cinegiornale fascista qualsiasi?
Coloro che si lamentano dei Ballarò e degli Annozero, dove un contraddittorio tra le parti è comunque garantito ogni sera, sono gli stessi che mandano in solitaria il teorico del berlusconismo di cui sopra sul tiggì più guardato d'Italia, oppure ritagliano sul quinto canale una rubrica fissa mattutina per il Belpietro o il Facci di turno in cui poter pontificare contro la minaccia rossa senza contraltare.

Perché chi guarda le trasmissioni di Floris o Santoro nel 90% dei casi già sa dove destinerà il suo voto in cabina elettorale; diversamente da quelle casalinghe che la mattina accendono in buonafede la televisione per avere un po' di compagnia mentre sbrigano le faccende di casa e si ritrovano il faccione e, soprattutto, il vocione del direttore di Libero che tenta di spiegargli l'inopinabile.
Non è un'eresia sostenere che politicamente sposta più mezzora di Belpietro la mattina o una telefonata di Silvio in seconda serata a Signorini piuttosto che una stagione intera di Lerner, Annunziata e Travaglio in tivvù: questi ultimi parlano ad un pubblico già fortemente politicizzato che difficilmente flotterà il suo voto da una coalizione all'altra, invece la propaganda del PdL punta agli indecisi, li va a stanare nelle loro case, dove non arrivano giornali ma soltanto la voce della D'Urso e dei suoi amici.

giovedì 10 febbraio 2011

Avocado ad interim

E puntuali arrivarono le notizie dal suo avvocato.
Che a quanto pare non è più l'on. Ghedini, impegnato a scrivere una nuova bozza sul processo breve, bensì il min. degli Esteri Franco Frattini, nominato difensore d'ufficio del PdC ad interim. Il quale annuncia un possibile ricorso a Strasburgo presso la Corte europea dei diritti dell'uomo per violazione della privacy del premier.
Eppure stavolta ero convinto che ieri Silvio c'avesse fatto partecipi della sua ennesima burlonata che non fa ridere, uno scherzo di pessimo gusto un po' come fu quello di Emanuele Filiberto e dei suoi 260 milioni di risarcimento.
Invece no, farà causa allo Stato.
Quello stesso Stato il cui nome ha campeggiato per anni sul simbolo del suo partito.
Quello stesso Stato che ha avuto (ed avrebbe ancora) il consenso, il potere e la responsabilità di cambiare, in meglio s'intende.
Quello stesso Stato che oggi più che mai si arrocca sulle solite tre torri: a) con lui, b) contro di lui, c) menefreghismo e disgusto.

Quello stesso Stato (è l'ultima, poi basta prometto) del quale ricopre la quarta carica più alta, probabilmente la più importante, di sicuro la più incisiva.
La Presidenza del Consiglio è un'istituzione dello Stato e chi ne ricopre l'incarico ne diventa parte integrante: è un concetto così semplice che mi imbarazza scriverlo.
Berlusconi oggi è un pezzo di quello stesso Stato che vuole denunciare: ma come può qualcuno arrivare a far causa a sé stesso? Delle due l'una: eccesso di onestà e autocritica oppure schizofrenia avanzata?

mercoledì 9 febbraio 2011

Avrà notizie dal mio avvocato

Il premier ha rotto gli indugi:
«Farò causa allo Stato»


Forse è la volta buona che si presenta in tribunale.

sabato 5 febbraio 2011

Irricevibilità & Irresponsabilità

Può un provvedimento presente da 17 anni nel programma di una coalizione attualmente al governo assumere nel giro di un'infornata di pizza i connotati di straordinarietà, necessità ed urgenza pretesi dall'art. 77 della Costituzione per farne un decreto legge, dopo che il medesimo è stato bocciato da una commissione bicamerale appartenente a quello stesso Parlamento che dovrà poi nel giro di 60 giorni convertirlo in legge?

Il lungo quesito qui sopra prende spunto dall'ultimo giro sul cortocircuito istituzionale innescato da questo esecutivo, l'ennesima forzatura presidenzialista tentata contro il nostro organo legislativo parlamentare, ormai sempre più inerme ed esautorato dei propri poteri.

"Irricevibile": così il federalismo 2.0 (quello municipale, dopo l'ormai accantonata versione fiscale) è stato commentato e rispedito al mittente da un incolpevole Giorgio Napolitano. Se è vero che per la nostra Costituzione il Presidente della Repubblica è irresponsabile politicamente di ogni suo atto, altrettanto irresponsabile si è dimostrato questo Consiglio dei Ministri per aver tentato una manovra simile.

prestigiatore
Calderoli minaccia avventatamente di chiedere al CdM di porre la questione di fiducia sulla votazione del provvedimento alle Camere: per un governo retto da un paio di deputati fuoriusciti dall'IdV, quello del leghista non solo è uno spauracchio da due soldi, ma potrebbe persino rivelarsi un assist estremamente ghiotto per le opposizioni.

Chi o cosa può materializzare meglio di un voto di fiducia quel "federalismo o elezioni" ripetutamente decantato da Bossi negli ultimi mesi? Dimostri una volta per tutte al "suo" "popolo" di essere capace di portare oltrepo un risultato concreto da quella Roma ladrona che lo ha visto spadroneggiare per 8 degli ultimi 10 anni come se fosse un partito d'opposizione.

O forse quel federalismo è troppo importante per le campagne elettorali del Carroccio, dove ricoprono da sempre il ruolo principale nella proposta padana, altrimenti fatta di xenofobia e secessionismo. Di fronte ad un elettorato cinico e mobile come quello italiano, la Lega potrebbe paradossalmente ottenere più consensi presentandosi alla prossime elezioni ancora una volta come coloro che otterranno il federalismo, piuttosto che vantando finalmente di essere riusciti a farlo approvare. Il dubbio sorge.

giovedì 3 febbraio 2011

Divo per una notte

Ieri su La7 dopo la visione del film Il Divo - La spettacolare vita di Giulio Andreotti, in seconda serata è andato in un onda un dibattito riguardante il potere in Italia (tranquilli, non ho alcuna intenzione di riassumervelo o aggiungere qualcosa).
Conduceva Enrico Mentana, direttore del tiggì di rete; intervenivano Paolo Mieli ex direttore del Corriere della Sera, Nicola Porro e Marco Ferrante rispettivamente giornalisti per Il Giornale e Il Riformista.

E poi, molto poi, c'era anche Umberto Ambrosoli. Non si sa che lavoro faccia (e di conseguenza neanche da chi venga pagato), non si sa per chi voti come non si sa quale sia il suo orientamento politico. Si sa soltanto che è il figlio di Giorgio Ambrosoli, l'avvocato incaricato di liquidare la Banca Privata Italiana fatto uccidere dal banchiere Sindona. Del padre, a sua volta, già sappiamo tante cose, compresa l'appartenenza ad una destra conservatrice che in Italia, in realtà, non c'è mai stata. Ma di Umberto no, non si sa proprio niente, neanche da dove venga: a sentirlo parlare non sembra neanche di questo Paese.

Interviene per primo, prendendo appena spunto dal film-biografia sul senatore a vita Andreotti, uomo accusato di essere dietro le quinte di tutto ciò che è accaduto in Italia, Guerre Puniche a parte: anche dell'omicidio del padre Giorgio, come esplicitamente insinua la pellicola.
Potrebbe abbandonarsi a qualsiasi rancorosa invettiva contro il sette volte Presidente del Consiglio o chicchessia, supportato da una qualunque tra le tante teorie complottiste fabbricate in questo Paese; e potrebbe farlo senza macchiarsi di quel senso di ridicolo che contraddistingue ad un miglio di distanza i farneticatori tricolori di turno; perché lui, il lutto, l'ha vissuto nella sua famiglia. Ed invece la sua analisi è acuta, tra le sue parole non vi è pontificazione alcuna che non sia stata certificata dalla sentenza di un giudice.

Tutto ciò appare così lontano dalla condotta di quelle fazioni che puntualmente disapprovano i tribunali ancor prima dei processi, che adottano un sistema di giustizia fatto in casa, dove i corrotti saranno espulsi dal partito solo se ritenuti tali dal partito stesso, anche contro una sentenza di primo o secondo grado. Ed altrettanto lontano anche da quella mania del complotto a tutti i costi, che indaga parallelamente su ogni aspetto e su ogni vicenda, italiana e no, sicura che ci sia sempre dell'altro dietro la versione ufficiale.
Patologie che opprimono il nostro Paese, ammesse come plausibili per chi le ha contratte dalla carente efficienza della giurisdizione italiana e dalla lunghissima tradizione di segreti o di inspiegabili verità ufficiali.
Ma c'è una giustificazione che possa valere la quotidiana delegittimazione di coloro che hanno il compito di indagare, giudicare e quanto meno provare a stabilire come stanno realmente le cose?

Mentre cercavo di darmi una risposta, ripensavo alle parole di Brecht: "sventurata la terra che ha bisogno di eroi". E ripensavo a Cuffaro, trattato come un messia per essersi presentatosi al carcere di Rebibbia per scontare una pena di 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. E per chiudere il cerchio, ripensavo nuovamente alle parole di Umberto Ambrosoli: un cittadino come tanti in un Paese con una decente coscienza civile, un alieno sbarcato da chissà dove in Italia.

lunedì 31 gennaio 2011

Lei come si pone?

Quando ci si avvia da soli per un cammino, arriva sempre prima o poi il momento in cui si avverte la necessità di avere un po' di compagnia: è la vita che te lo impone. È seguendo simili (il)logicità esistenziali che questo spazio vuole da oggi cominciare ad ospitare voci diverse da quella del suo autore, presentare ai suoi visitatori nuove opinioni ed altri punti di vista.
Il problema di come e soprattutto con chi rompere il ghiaccio non è stato da poco: l'idea che segue nasce un po' per caso, come uno scherzo tra amici.

La possibilità di intervistare l'autore dell'ultimo libro che hai letto non capita tutti i giorni, e non potevo farmela sfuggire. Il libro in questione è L'Uomo Nero, che è anche il primo romanzo giallo ad aver mai alloggiato sul comodino accanto al mio letto: ci è rimasto poco lì sopra, non più di due notti, durante quelle poche fisiologiche pause tra una pagina e l'altra.
Il merito di una lettura conclusasi così in fretta non stava nell'esiguità del racconto, che anzi superava quota 300 pagine, ma nella bravura del suo autore, capace di estrarre dai sotterranei dell'Urbe un thriller avvincente e dall'esito imprevedibile. Un registro accessibile nella sua ricercatezza ed uno stile fluido e mai autoreferenziale rendono scorrevole ogni momento della narrazione: i capitoli, brevi, con i loro continui cambi di scena, volano via uno dopo l'altro come un sacchetto di caramelle tra le mani di un bambino.
Il titolo, semplice nella sua infantile reminiscenza, è forse l'unico trascurabile difetto dell'ultimo lavoro di Luigi Sorrenti che, come forse avrete intuito, è una vecchia conoscenza di chi vi scrive.
Due vecchie conoscenze che qualche giorno fa si sono incontrate per fare due chiacchiere.

Usiamo il "tu" o il "lei"?
Questo devi deciderlo tu.

Messaggio recepito. L'Uomo Nero è la tua seconda fatica letteraria giunta diversi anni dopo il debutto con Zeus e la Luna: dove è nata l'ispirazione per questo libro e quali sensazioni accompagnano il tuo ritorno editoriale?
Zeus e la Luna non ebbe alcun tipo di successo per molti motivi, non ultimo perché probabilmente in quel libro non credevo neanche io. Infatti non feci la minima pubblicità all'opera. Però è stato un momento importante per me, di crescita e di comprensione. Ho continuato a scrivere nel corso degli anni più per me stesso che per gli altri, senza velleità editoriali, finché non è arrivato L'Uomo Nero. Il libro ha avuto una stranissima gestazione, essendo infatti nato come un romanzo su "commissione": un caro amico, proprietario di una casa editrice in cattive acque mi ha chiesto di realizzare un romanzo breve da pubblicare con lui, nel tentativo di risollevare le sue finanze. Da tempo mi affascinava l'idea di un romanzo ambientato a Roma, in cui a far da asse portante della trama fosse una specie di inquietante contrasto fra lo splendore della città ed il male che alberga nel sottosuolo. Così iniziai a buttar giù una prima bozza di quello che poi è diventato L'Uomo Nero. Nonostante nel frattempo questa piccola casa editrice abbia chiuso, ho deciso di continuare nella stesura del libro, quello che inizialmente doveva essere un classico giallo si è trasformato in qualcosa di diverso, un noir con evidenti venature della narrativa gotica; l'ho portato a termine, trasformandolo poco alla volta da romanzo breve in un vero e proprio libro.

Cosa ti ha colpito del sottosuolo dell'Urbe a tal punto da farne l'ambientazione di molti degli omicidi commessi dall'Uomo Nero?
La metropolitana di Roma è un luogo che frequento quotidianamente, abitando e lavorando nei pressi della Linea B. In metro s’incontrano tante persone, volti sconosciuti, ma che poco alla volta possono diventare familiari. Mi sono sempre divertito ad osservare queste persone, immaginare da dove vengono, dove vanno, cosa pensano, se sono felici, tristi, serene, stanche, quali fardelli si portano dietro: le loro vite insomma. La metro è un luogo a volte triste e desolante, altre volte affascinante, che ben si presta a mio parere a far da sfondo agli efferati crimini di uno psicopatico. Ambientare il libro lungo le linee della metropolitana aveva però anche un altro significato. I cunicoli che si diramano nel sottosuolo di Roma, simboleggiano quello che è il sottobosco della città, un sottobosco oscuro, misterioso, fatto da oltre duemila anni di intrighi e complotti. Basti pensare ad esempio alle origini della città, la sua fondazione avvenuta con un omicidio e poi, con il passare dei secoli, ci imbattiamo nelle pugnalate di Cesare, in Nerone, Caligola, la riforma protestante, fino ad arrivare alla Roma barocca e papalina, quella ricca e corrotta, e – dulcis in fundo – alla Roma dei giorni nostri.

La lunga storia e le antiche tradizioni di questa città sono un'eredità troppo pesante per la Roma di oggi?
Un’eredità pesantissima per qualunque città, un’eredità che Roma affronta spesso con scarsa consapevolezza del suo passato e della sua gloria, se non in maniera molto superficiale. Larga parte della popolazione romana, soprattutto le nuovissime generazioni, ignora completamente il passato della città, le sue grandezze, i suoi splendori, ma anche le sue miserie, limitandosi spesso a conoscere – e per di più superficialmente – la Roma imperiale, quella che ruotava attorno al Colosseo, la Roma dei gladiatori, in una visione distorta e iconografica, propugnataci da decine di colossal hollywoodiani.

L'intero racconto si svolge a Roma, città che non solo tratteggi nei suoi dettagli topografici, ma nella quale ti avventuri anche in un'analisi psicologica e sociale che coinvolge sia la cittadinanza che lo stesso tessuto urbano: perché proprio la Capitale e quale rilevanza assume questa caratterizzazione ai fini del racconto?
Roma si prestava bene a fare da sfondo ad un romanzo che tratta certe tematiche per una serie di motivazioni: la dicotomia fra bene e male che si respira in città ne è solo una parte. Nel libro assume una certa valenza il ruolo svolto dalla stampa nell'alimentare la psicosi collettiva: Roma ha una centralità da un punto di vista politico e sociale in Italia che ne fa una cassa di risonanza per quelle che poi sono le paure e le psicosi di un' intera nazione. Un fatto di cronaca che avviene a Roma assume sempre connotazioni particolari, diverse: si sa dove inizia e non si dove si va a finire. Perché puntualmente intervengono i vari poteri che hanno sede in città, il potere politico, quello religioso, spesso i servizi deviati e tutto viene ingigantito da quell'accanimento mediatico che trova terreno fertile nel tessuto sociale della città. E di esempi ne abbiamo in abbondanza anche solo rimanendo alla cronaca recente locale romana e nazionale.

Lo stesso titolo del libro è anche il nome con il quale i mass media identificano nel corso della storia l'ignoto serial killer, ricordando per certi versi le maratone mediatiche degli ultimi mesi per le vicende di Avetrana e Bembrate di Sotto: dove finisce la notizia di cronaca e dove inizia lo spettacolo della caccia al mostro?
Il confine è labile, è come chiedersi dove finisca il diritto di cronaca e dove inizi quello che è un vero e proprio sciacallaggio mediatico. Si potrebbe rispondere che il confine dovrebbe essere dettato dal buon senso e dal buon giusto, ma quando c'è la corsa alla notizia, quando inizia una vera e propria sfida per gli indici di ascolto e per le tirature dei giornali, il buon senso e il buon gusto vengono molto spesso messi da parte. Non è una cosa dei giorni nostri: un triste punto di partenza fu segnato con la storia di Alfredino Rampi a Vermicino nel 1981, forse il primo caso trasmesso a lungo in televisione che ha tenuto incollati milioni di persone davanti alle TV per seguirne lo svolgimento: è stato un punto di svolta, la scoperta che si potevano fare ascolti cavalcando una tragedia. Da allora è stata una discesa continua verso ciò che Giorgio Gaber chiamava cannibalismo mediatico, arrivando a definire i giornalisti "cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti e si direbbe proprio compiaciuti" e concludendo con "si buttano sul disastro umano col gusto della lacrima in primo piano".

Nel profilo che hai tracciato di Roma e dei suoi abitanti, la città diventa uno specchio dell'Italia nel suo complesso oppure assume una connotazione esclusiva?
Roma è un po' lo specchio dell'Italia, anzi, Roma è l'Italia, un'Italia all'ennesima potenza: i difetti del Paese a Roma sono più accentuati, così come anche i suoi pregi. Allo stesso modo la popolazione romana non è altro che la popolazione italiana in cui pregi e difetti sono estremizzati.

Un episodio del romanzo che vede protagonisti Roma e i suoi cittadini è il linciaggio di un extracomunitario accusato di essere il colpevole dei delitti che destabilizzano la città: qual è oggi il rapporto dei romani con gli stranieri?
Un rapporto non dissimile da quello di altre grandi città, soprattutto del nord, come Milano o Torino. Un rapporto che si basa sul contatto stretto fra persone diverse per cultura o per tradizione, da cui spesso scaturisce l'incomprensione, il rifiuto, o che finisce per sfociare nella sopportazione e finanche nel rancore. Alla base di tutto, però, c'è un forte pregiudizio che noi come popolo ci portiamo dietro nei confronti dello straniero o più in generale del diverso.

Suggestivi ed enigmatici sono i riferimenti alla religione cattoliche in alcune pagine, forse doverosi in uno scenario così legato alla cristianità ma per nulla scontati: quale rilevanza assume la religiosità nel corso della storia?
La storia si apre il giorno di Natale e si conclude il giorno di Pasqua: il lasso temporale è dunque compreso fra la nascita e la morte e la successiva resurrezione di Cristo; alcuni nomi dei protagonisti hanno chiari riferimenti religiosi e la parte conclusiva si svolge in piena veglia pasquale. A pochi metri di distanza si verificano due eventi di natura opposta: da un lato la veglia che rappresenta la vittoria del bene sul male, quindi della vita sulla morte, la vita oltre la vita; dall'altro l'ultimo delitto dell'Uomo Nero, la morte, la fine di un'esistenza. Questo contrasto fra bene e male (già usato ampiamente nella letteratura e nel cinema, basti pensare alla scena finale de Il Padrino) simboleggia il modo in cui Roma vive la presenza del Vaticano: una presenza che ha portato lustro a tutta la città, non solo dal punto di vista spirituale ma anche culturale e artistico, ma anche una presenza ingombrante e spesso invasiva sulla società e sulla vita politica del paese e della nazione.

Il Vaticano oggi ha davvero tutta questa influenza sulla società italiana?
Vorrebbe averla, e in fin dei conti ce l'ha ancora. Il vaticano politicamente in Italia sposta ancora una buona quantità di voti: di conseguenza ha una forte influenza su quella che è la vita politica e quindi sociale del Paese.

Nonostante ciò, diventa sempre più evidente la distanza tra una morale condivisa, non per forza cattolica, e la condotta dei nostri rappresentanti, non solo nel proprio ambito privato: dobbiamo definitivamente abbandonare l'aspirazione ad una classe dirigente che faccia da esempio per i cittadini?
Purtroppo ritengo che la classe dirigente sia lo specchio della nostra società. Sarò pessimista o disfattista, ma i valori che la nostra società prende come riferimento ed offre sono quelli che sono: il potere, il successo, il denaro, e qualsiasi mezzo è lecito per arrivarci. I rappresentanti politici, la classe dirigente, coloro che ci rappresentano all'estero, bene o male entro certi limiti li scegliamo noi: sono il nostro specchio, lo specchio di una società che legge poco, che inebetisce davanti alla TV, in cui non vige nessuna forma di meritocrazia e dove spesso ha la meglio il più furbo. Una classe dirigente che sia d'esempio è oggi un'utopia: a meno di un completo e radicale cambiamento, non soltanto politico ma che riguardi l'intero tessuto sociale.

Si mangia con la cultura?
Ovviamente no, chi ci riesce è particolarmente bravo e fortunato ma parliamo di una percentuale davvero minima. La cultura non nutrirà il corpo, ma nutre senz'altro lo spirito. E forse è più importante.

Le parole del Ministro dell'Economia ("Fatevi un panino con la Divina Commedia") sono sembrate denigratorie a tal proposito, mentre il Dicastero dei Beni Culturali si sta distinguendo come uno dei peggiori dai tempi dell'Unità d'Italia: c'è qualcosa che non va nella concezione delle arti e della cultura nel nostro Paese o nel nostro governo?
Dare una definizione di cultura non è mai facile, ma in qualunque modo la si intenda questa gioca un ruolo fondamentale in una società. La cultura arricchisce ma non riempie le tasche: è un freno alla volgarità dilagante, aiuta a distinguere tra ciò che è bene e ciò che è male. È uno strumento fondamentale per giudicare chi ci governa, è un riscatto dalla povertà. Da sempre i regimi totalitari rinnegano la cultura e bruciano i libri: perché dalla consapevolezza, dalla cultura, nasce la rivolta.
Ora in Italia ovviamente non siamo a questo livello, anche se sembra che ce la si stia mettendo tutta per arrivarci, e ritengo che i problemi in materia siano atavici e non riguardino esclusivamente questo governo o questo ministero dei beni culturali.
Sicuramente c’è qualcosa che non va se diamo così scarso peso a quest’aspetto che è e rimarrà sempre fondamentale per la vita di un uomo. Siamo un Paese che ha vissuto per secoli di arte e di letteratura, siamo il Paese della cultura per antonomasia, ed oggi è come se avessimo una specie di rigetto o pensassimo che possa bastare la nostra storia per non inaridirci. Purtroppo non è così.

L'Uomo Nero è un giallo noir: al di là della letteratura di genere, c'è qualche autore dal quale hai tratto ispirazione durante la sua stesura?
Non c'è un autore a cui mi ispiro, ritengo che ognuno debba scrivere com'è capace di farlo, senza tentare di imitare nessuno: ognuno ha il suo stile.

E allora quali sono i tuoi scrittori preferiti?
Bella domanda. Difficile fare una lista: per fare un paio di nomi, adoro Hemingway e Bukowski. Tra gli italiani, invece, mi piace molto De Luca.

I libri che ti hanno catturato di più?
Il vecchio e il mare per me é il libro perfetto, quello cui ogni scrittore dovrebbe tendere. Un libro breve, secco, asciutto, che riesce a tenerti ancorato alla lettura anche se l'autore parla del nulla: questa per me è l'apoteosi della scrittura, un concetto un po' perverso ma è la vera grandezza dello scrivere. Poi On the road di Kerouac, Il giovane Holden di Salinger, Chiedi alla polvere di Fante, molto di Bukowski. C'è un racconto di quest'ultimo che per me è stato un punto di svolta, si chiama La mia pazzia. Parla di una tigre sulla sua schiena del vecchio Charles, che lo obbliga a scrivere ininterrottamente, perché solo così può nutrirla, darle battaglia, ma mai sconfiggerla, perché la tigre chiederà sempre di più e non sarà mai abbastanza sazia delle sue parole. Solo grazie a questa tigre sanguinaria e battagliera, lo scrittore – ma più in generale l’artista – può crescere e migliorare. Un po’ la stessa cosa che diceva Hendrix a proposito del fuoco che ardeva dentro di lui e che lo costringeva a comporre sempre nuove note e nuove melodie. La tigre e il fuoco sono due facce della stessa medaglia ed alla fine se ci pensiamo bene è ciò che diceva anche Nietzsche: “Bisogna avere il caos dentro per partorire una stella che danzi”. Ma non vorrei divagare, tornando a Bukowski, il suo racconto, termina così: E se fra voi c'è qualcuno che si sente abbastanza matto da voler diventare scrittore, gli consiglio va' avanti, sputa in un occhio al sole, schiaccia quei tasti, è la migliore pazzia che possa esserci, i secoli chiedono aiuto, la specie aspira spasmodicamente alla luce, e all'azzardo, e alle risate. Regalateglieli”Beh, io ci ho provato!

venerdì 28 gennaio 2011

Ma che bel castello

Nel frattempo, a scanso di equivoci, il reuccio si blinda nel suo castello domestico, barricato sotto l'assedio della magia rossa operata dagli stregoni comunisti, mai così pochi come adesso ma mai così potenti. La logica regale è sempre quella: col ciufolo che lei glielo dà il potere, giusto? (minuto 4 e 25 secondi): l'idea di trovarsi ancora in una Repubblica Parlamentare nemmeno lo sfiora, d'altronde nemmeno i parlamentari stessi sembrano ricordarsene.

Anche perché finché sei un (finto) giovane, persa un'elezione puoi sempre sperare di vincere quella successiva; quando arrivi alla soglia dei 75 anni, la consapevolezza di poter essere all'ultimo giro di giostra ti sovviene e fai di tutto per non scendere di sella: oramai anche i vecchi cari sondaggi sono diventati infidi, nonostante ad oggi, giusto a titolo informativo, lo darebbero ancora come il cavallo vincente su cui puntare in primavera. Meglio non rischiare.

Dal trono parte il solito ordine. Gli eserciti realisti salgono ancora una volta sui bastioni e tra un merlo e l'altro riversano giù una nuova colata di pece bollente. Può cambiare il bersaglio all'occasione: oggi la Boccassini e Santoro, ieri Fini, l'altro ieri Boffo o Mesiano, domani chissà; ma l'obiettivo rimane sempre quello e segue la solita equazione, secondo la quale tutti hanno uno scheletro nell'armadio ergo tutti possono essere attaccati ergo siamo tutti uguali o, in alternativa, vorremmo tutti essere come lui.

Non è vero! reagisci d'istinto, quasi con un moto d'orgoglio, prima di accorgerti mesto che la vita di B è davvero il triste sogno di molti, la nascosta (?) ambizione di troppi, e che tu non puoi farci niente. Solo allora arrivi a capire che il liquido nero calato dall'alto di quelle mura non ha colpito soltanto lo sventurato di turno che ha osato ribellarsi alla corona, ma si è riversato irrimediabilmente nelle campagne fuori dal Palazzo, dove sopravvivono coloro che non contano niente.

giovedì 27 gennaio 2011

Se questo è un uomo

Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero. (Primo Michele Levi)

La storia non è maestra di niente.

mercoledì 26 gennaio 2011

Treppiedi in una Scarpa

In una Democrazia come quella italiana, la separazione dei poteri vuole che chi viene incaricato di una funzione pubblica, svolgendo il proprio compito si comporti anche da controllore di quanti parallelamente sono stati incaricati di altre funzioni pubbliche, complementari alla propria e mai concorrenti.
Il potere, inteso come autorità legittimata a decidere o influenzare le decisioni di uno Stato, non è a somma zero. Il detentore di uno dei tre poteri statali (esecutivo, legislativo e giudiziario) che interviene per sminuire chi ne esercita uno diverso nel tentativo di sottrargli ed accaparrarsi maggiore autorità, fallirà miseramente.

Perché la delegittimazione di una sola istituzione pubblica si riversa direttamente nei confronti dello Stato in quanto massimo ufficio riconosciuto dai cittadini e coinvolgerà in maniera direttamente proporzionale ogni altra istituzione, a partire da quella che avrà iniziato il processo di autodistruzione.
Un potere che controlla un altro potere non può perciò intervenire per sottrarre a quest'ultimo margini di autorità, né invaderne i confini di influenza. Il sistema dei pesi e contrappesi si regge se tutti gli incaricati di un potere adempiono al proprio compito: se una delle istituzioni preposte diventa troppo forte o troppo debole, le conseguenze coinvolgono l'intero sistema. Tali poteri sono in sintesi come i legni di uno sgabello a tre piedi: se uno di questi è troppo lungo o troppo corto, lo Stato che vi è seduto sopra cade.

Nella guerra di trincea riesplosa in questi giorni tra l'esecutivo di Berlusconi e la magistratura di Milano, vediamo affrontarsi tra loro due poteri similmente forti accaniti l'uno contro l'altro per una battaglia persa in partenza da tutti.
Se il premier dovesse dimettersi sotto i colpi dei PM milanesi, il potere giudiziario conquisterebbe un influenza abnorme sulle scelte politiche del Paese che difficilmente saprebbe controllare da solo; mentre un'ennesima sottrazione dal giudizio del tribunale per il Presidente del Consiglio significherebbe un altro destabilizzante colpo per un sistema giuridico sempre più invadente, lungo e inconcludente.
Ma non è tra questi due contendenti che nasce lo squilibrio delle nostre istituzioni, bensì dall'inarrestabile perdita di autorità del Parlamento italiano. Un Parlamento sbranato dagli altri due poteri: prima delegittimato oltre ogni suo demerito dall'inchiesta di Mani Pulite e poi sottratto sempre più spesso del suo potere legislativo da Consigli dei Ministri prodighi di decretazioni d'urgenza.
Se il Parlamento, crocevia fondamentale per le fortune di ogni Repubblica Parlamentare che si rispetti, non troverà un moto d'orgoglio e non riscatterà il suo ruolo di protagonista per la politica italiana, questi decennali tempi bui rischiano di protrarsi ancora per molto.
L'unica via percorribile è quella che ricondurrà i nostri parlamentari dalle luci degli studi televisivi ai banchi di Palazzo Madama e di Montecitorio: una volta lì, dovranno riappropriasi del propria funzione legislativa, impedire questa tacita trasformazione in atto del nostro sistema in un presidenzialismo zoppo e riassumersi personalmente quelle responsabilità da troppo tempo delegate ad un singolo, che mettendoci la faccia per tutti ha sacrificato non solo le idee, concetti ormai preistorici, ma persino i programmi di governo in cambio di un più rassicurante e meno impegnativo "ci penso io".

martedì 25 gennaio 2011

Ruby Tuesday

Questo blog (ed ovviamente il suo autore) ha il (pessimo?) vizio di sparire nei momenti più bui e di sottrarsi alle illogiche di quella caciara politichese che impone la ripetuta baraonda di accuse, sempre le stesse da anni, di una parte contro l'altra (e viceversa) come l'unico spartito rimasto alla nostra classe dirigente per adempiere l'ingrato compito della rappresentanza politica, l'unica strada per quegli intellettuali d'oggi idioti di domani per vendere la propria opinione.
Purtroppo per questi gorilla in giacca e cravatta e minigonna (con tutto il rispetto per i gorilla ma anche per le minigonne), il loro baccanale circa le sorti della Repubblica delle Banane non riesce a coprire il silenzio di una Nazione mortificata dalla disinvolta noncuranza per quei problemi quotidiani che un parlamentare, per forza di uno rimborso dieci volte superiore allo stipendio medio di un cittadino qualsiasi, non può affrontare, né concepire e quindi nemmeno risolvere.
C'è un Paese ormai logoro ed abituato a questa umiliazione governativa che fa del suo puntualmente elevato tasso di partecipazione alle urne la sua incrollabile speranza affinché qualcosa cambi, ma che al tempo stesso ha imparato da tempo e a proprie spese a provvedere a sé stesso. Perché ci sarà un motivo per cui, non soltanto nel Meridione, il familismo amorale assume così tanta importanza; e ci sarà un motivo per cui questo Paese ha il peggiore debito pubblico ed il minore debito privato d'Europa.
In attesa che si ritorni a parlare di riforme e provvedimenti anziché azzardarsi sui pronostici del prossimo ritorno alle urne, perché registrare negli ultimi 8 mesi il mesto bottino di una finanziaria e della legge Gelmini mi sembra un po' poco, soprattutto alla luce dell'ampia maggioranza che fu e dello scilipotiano governo che è adesso.
In attesa, dicevo, ascoltiamoci la solita vecchia nuova canzone:





"There's no time to lose", I heard her say
Catch your dreams before they slip away
Dying all the time
Lose your dreams and you will lose your mind
Ain't life unkind?

giovedì 13 gennaio 2011

Quarto Potere

Dimmi come è strutturato il tuo sistema televisivo e ti dirò che Paese sei.

Non voglio discutere di come i mass media, e in particolare il tubo catodico, possano influenzare, oggi come ieri, la società italiana inviando messaggi univoci sotto forma di modelli comportamentali o di informazioni, vere o false che siano, non controbattibili. Tutto ciò viene dopo.
Prima, o se volete a capo, di tutto ciò c'è chi possiede una rete televisiva. Nel caso italiano più di una rete, molte più di una.

La lenta conversione dal segnale analogico a quello digitale che sta attraversando il nostro Paese venne annunciata agli albori come una grande opportunità per aumentare la pluralità dell'offerta e le possibilità di investimenti per nuovi competitori.
Facciamo finta che gli incentivi statali stanziati dallo scorso governo di centrodestra non siano andati a favore delle imprese della famiglia Berlusconi che producevano i nuovi decoder o che vendeva a prezzi stracciati abbonamenti alla nuova piattaforma televisiva payperview, poi triplicati nel giro di qualche anno: la situazione attuale è così diversa rispetto a quella precedente al fatidico Passaggio al digitale?

Il duopolio Rai-Mediaset, minimamente infastidito da La7 in chiaro e da Sky sul satellite, si sta a sua volta trasferendo sul digitale: dove è vero che brulicano tanti nuovi canali, ma che sono quasi sempre tematici e mai generalisti e soprattutto rimangono nella stragrande maggioranza dei casi targati Rai o Mediaset.
Questo per il semplice motivo che liberalizzare di punto in bianco non significa dare a tutti le stesse opportunità. Sul nuovo segnale il duopolio non solo non si è spezzato, bensì si sta consolidando: Rai e Mediaset si sono presentate col grosso vantaggio quantificabile in anni di esperienze, di fidelizzazione con lo spettatore, ma soprattutto di introiti. E quando ciò non basta, ci pensano i tentacoli del vate di Arcore ad ostacolare i piani degli avversari.

Forse già saprete del provvedimento dell'attuale governo che nel novembre 2008 aumentò l'IVA sulla pay-tv passandola dal 10 al 20%. Invece è probabile che vi sia sfuggita la mossa da maestro di Mauro Masi, allora neo direttore generale della Rai, che nell'aprile 2009 rifiutò da Sky l'offerta di 50 milioni annui per trasmettere sul satellite il bouquet dei suoi canali satellitari.
a chi il dito negli occhi e a chi il dito in...
L'ultima marachella del B-Team salta fuori adesso che è stato rinvenuto il cadavere, ma il delitto è stato ordito e consumato mesi fa.
La vittima è Dahlia, terza incomoda sia come piattaforma digitale dietro Rai e Mediaset, sia come offerta calcistica a pagamento dietro quest'ultima e Sky, nasce nella primavera del 2009 e oggi è già costretta alla liquidazione. Caro le è costato il tentativo di intromettersi nella battaglia Mediaset-Sky, soprattutto profanando il campo di calcio sul quale si concentrano i maggiori introiti delle pay-tv.

In breve: uno dei tanti scagnozzi del premier, tale Galliani Adriano insediato oramai da anni ai vertici della Lega di Serie A, non ha avuto vita difficile quest'estate nel cambiare in corsa le regole che assegnavano i diritti per la trasmissione sul digitale delle 20 squadre, facendo in modo che Dahlia si ritrovasse senza le partite casalinghe di Fiorentina, Bologna e Palermo (per il quale aveva già messo su un canale dedicato), ovvero i bacini d'utenza maggiori detenuti fino alla scorsa stagione 2009/2010. Ciò ha comportato molti meno abbonamenti e di conseguenza meno introiti, nonostante gli sforzi portati avanti fino ad allora per implementare e migliorare la propria offerta. E soprattutto 150 dipendenti presto senza lavoro.

Ovviamente sono già pronti i piani di recupero del Ministro dello Sviluppo Economico Romani che si è già attivato nella ricerca di qualcuno trai suoi amici disposto a rilevare l'azienda, dietro la promessa di non essere più d'intralcio al capo.
Non dovesse concretizzarsi l'offerta d'acquisto, tranquilli! C'è sempre un Piano B: Mediaset si è detta disponibile ad acquisire i diritti per le partite delle squadre rimaste scoperte, ma ovviamente non è disposta a pagare nemmeno un euro, facendo passare il tutto come un favore ai tifosi rimasti senza copertura televisiva.

Ah, un'ultima nota sulla vicenda: il progetto Dahlia vedeva impegnati investimenti svedesi per circa l'80% sul totale. Nessuno si meravigli se non entrano più capitali esteri nel Bel Paese.

martedì 11 gennaio 2011

Ahi serva Italia

Volevo commentare la notizia che sta circolando in queste ultime 24 ore, confermata peraltro da alcuni sottosottotenenti del PdL, secondo la quale il nuovo partito targato Berlusconi Presidente si chiamerà Italia...



...ma non ce l'ho fatta.


P.s.: aggiunti di fianco due elenchi dei miei link preferiti (ancora in corso di aggiornamento) che spero possiate trovare anche voi di interesse.

sabato 8 gennaio 2011

Incubo di una notte di mezzo inverno

Qualche giorno fa usciva sui giornali la notizia dell'ultima incursione telefonica del nostro caro premier in una trasmissione televisiva (c'è anche il video per chi ne avesse il fegato). Stavolta il destinatario della telefonata governativa non è stato il tanto bistrattato Floris, né l'arcinemico Santoro o il compagno di merende Vespa, bensì il nuovo avanguardista dell'intrattenimento televisivo targato Mediaset: Alfonso Signorini.

Kalispera! (punto esclamativo incluso dagli autori del palinsesto e non dal sottoscritto) era effettivamente un titolo che risuonava inedito dal tubo catodico, ma portava con sé quel profumo antico che solo la lingua greca sa lasciare.
Pensando si trattasse dell'ennesimo format di dibattito preconfezionato su politica, cultura e società decisi che valeva la pena darci un'occhiata. Non speravo di imbattermi in un bis del Dottor B., né di incrociare le teorie dei migliori politologi del nostro tempo (d'altronde rimane pur sempre un programma condotto dal direttore di "Chi"), però mai avrei pensato si potesse arrivare a tanto.

Sui divani che arredavano il palco come fosse il salotto di casa sua con tanto di cucina alle spalle, il presentatore Signorini sedeva in compagnia di due stimate intellettuali comuniste (la Dott.essa Senicar Nina e l'Avv.essa Santarelli Elena), tre direttori di scriteriate redazioni di sinistra (Fede Emilio, Mimun Clemente e Brachino Claudio) ed uno dei più apprezzati cantautori italiani reduci dall'esperienza del PCI insieme alla sua compagna (D'Alessio Gigi e Tatangelo Anna).
Argomenti della discussione:
- perché il Dir. Fede ha licenziato dopo soli 6 giorni l'Avv.essa Santarelli dalla conduzione delle informazioni meteo del TG4?
- perché la Dott.essa Senicar si rifiuta di uscire a cena con il Dir. Fede?
- chi è il giornalista più antipatico con il quale avete lavorato (o, nel caso delle intellettuali sinistroidi, portato a letto)?
Nel mentre:
- intervista ad un calciatore che sta scontando 12 anni di squalifica per essere risultato positivo due volte alla cocaina (Flachi Francesco, ovviamente dipinto come un eroe);
- servizio su come ha festeggiato il suo capodanno l'Ing. Arcuri Manuela;
- balletti e stacchetti vari ed eventuali.

È mia ferma intenzione non esprimere il minimo giudizio sulla trasmissione in questione (sebbene lo si possa arguire), né rammaricarmi sul perché esista e vada in onda. Ma nel momento in cui un politico, anzi il capo del nostro governo, decide di prendere la parola in tale spazio televisivo, tutto ciò assume i connotati di argomento politico: lo assumono i flessibili corpi della Dott. essa Senicar e dell'Avv. Santarelli come lo assumono quelli genuflessi dei Dir. Fede, Mimun e Brachino.
Perché è in uno scenario simile a quello appena descritto che il nostro primo ministro, evadendo da qualsiasi domanda scomoda e sfuggendo da ogni contraltare, ha preso la parola per recitare il solito canovaccio sui comunisti, i magistrati, i giudici, la sinistra, il popolo eccetera eccetera eccetera.

Nessuna teoria, nessun mistero, nessun messaggio subliminale: e soprattutto nessun risultato da vantare nonostante 8 degli ultimi 10 anni passati a governare, bensì soltanto esserci, presentarsi, comunicare.
E ancora, inutile intervenire in un programma politico seguito al 90% da persone che un'opinione politica ce l'ha già. Meglio comparire, o anche soltanto telefonare, dove si annidano gli indecisi (legittimamente indecisi, sia chiaro): è questa la propaganda del terzo millennio.

martedì 4 gennaio 2011

Ma è un canto brasileiro

Come una canzone del buon vecchio Lucio Battisti, questa settimana la vicenda dell'omonimo pluriomicida Cesare ha scalato le hit parade mediatiche di mezzo mondo, guadagnandosi le prime posizioni nelle classifiche italiane e brasiliane.
Siccome non stiamo parlando di spartiti e parolieri alla Mogol, bensì di diritto internazionale e rapporti diplomatici, non possiamo trattare il caso dell'estradizione di Battisti come una brano che ritorna di tanto in tanto alla radio, ma affrontarlo per quello che è: un caso intricato rimasto irrisolto per anni, più volte salito alla ribalta nell'agenda politica e nell'opinione pubblica, che non si poteva affatto pretendere né sperare di sbrogliare da un mattino all'altro.

La decisione di Lula non deve cogliere impreparata l'indignazione pubblica, fino all'altro ieri così silenziosa: la scelta del governo verdeoro è la stessa da anni e Battisti rimane ancora in Brasile dov'era anche sette giorni fa. D'altra parte, però, la non novità di questa vicenda non può e non riesce a nascondere la sua caratteristica a primo impatto più evidente: l'assoluta mancanza di una motivazione plausibile, o quanto meno comprensibile, alla base della decisione di Lula e dell'Avvocatura di Stato brasileira, che parlano di rischi per  l'integrità fisica del condannato in caso di rimpatrio.

Anche andando ad analizzare tale responso in base alle conseguenze e ai benefici che può recare ai suoi attori principali, tutto ciò diventerebbe ancora più inspiegabile in quanto sarebbe impossibile trovarne l'ombra di un vincitore o almeno di qualcuno che possa ricavarne un vantaggio. Tranne ovviamente chi ne avrebbe meno diritto di tutti: il criminale in questione.
Perché ci perde Lula, che conclude nelle polemiche e nell'impopolarità (eccetto per quel manipolo di intellettuali parigini del menga contrari all'estradizione) il rispettabilissimo incarico da Presidente della sua Nazione. Ci perde il suo successore, Dilma Rousseff, che in precedenza si era schierata a favore delle ragioni italiane. Ci perde ovviamente l'Italia (tutta) ma ci perde anche il Brasile perché i due Paesi vedranno congelarsi i rapporti diplomatici tra loro e, chissà, forse anche quelli economici per una stupidissima causa. Ci perde la comunità internazionale che non aveva affatto bisogno di aggiungere una nuova gatta da pelare nel suo già difficile calendario 2011.

O forse, analizzando il tutto da un'altra prospettiva, l'inspiegabilità di questa decisione è dovuta solamente alla parzialità della nostra italica posizione. La posizione di chi non vuole sentir provenire da altre Nazioni le accuse che noi stessi lanciamo quotidianamente al nostro sistema giuridico e alle nostre strutture penitenziarie. La posizione di chi vede intaccato il proprio ruolo internazionale da un Paese, il Brasile, non più soltanto patria di calcio e favelas, ma che ha raggiunto un livello del PIL pari al nostro ed è in corsia di sorpasso grazie ad una crescita economica nell'ultimo decennio 10 volte più forte di quella italiana. Una posizione che è riuscita a ricompattare l'intero sistema partitico italiano come è recentemente accaduto soltanto con le promesse di riduzione del numero dei parlamentari o di abolizione delle province.
Sarà mica un caso che ogni volta che tutti i nostri politici sono d'accordo tra loro poi va a finire sempre in un clamoroso fiasco?