martedì 28 dicembre 2010

L'Italia dei Favori

Durante questo dicembre l'Italia dei Valori si sta mostrando in tutta la sua semplicità per quello che è, forse anche dinanzi ai suoi più ciechi sostenitori e simpatizzanti, solitamente così solerti a voler ostinatamente aprire gli occhi altrui.
Qualcuno ha capito cos'ha detto?
Vietate e combattute le correnti interne, sbarrato qualsiasi accesso ad una leadership incontestata e incontestabile, il partito Di Pietro (rigorosamente con una sola "di" per sottolineare non solo l'appartenenza della cosa alla persona ma addirittura l'identificazione del tutto con un unico soltanto) è un partito monocratico e personalista tanto quanto il PdL. Con un punto di criticità in più non da poco.
Infatti, per quanto il berlusconismo abbia bisogno come l'aria di nemici che lo attacchino quotidianamente con ferocia per ricompattare puntualmente la propria fazione, Berlusconi senza Di Pietro può beatamente continuare a vivere politicamente. Viceversa, non potremmo dire altrettanto.
In tanti si sono domandati quale possa essere il futuro di Di Pietro e del suo partito successivamente ad un'uscita dalla scena romana di B. Nonostante i vari tentativi di rifarsi un volto politicamente più disteso ed esteso, l'ipotesi più probabile rimane tutt'oggi ancora la stessa: l'estinzione.
Tornando al presente, seguendo questa pista e calcando le orme più profonde della malafede, diremmo che il voto contrario alla sfiducia espresso alla Camera il 14/12 da quel manipolo di "fuoriusciti" dall'IdV non è stato poi così accidentale, ma necessario per garantire ancora un po' di ossigeno a Tonino l'abruzzese. Malelingue.

Ma anche se non stessero così le cose, c'è di certo che le responsabilità di Di Pietro sono tante e non da poco. La percentuale di ribaltonisti nel suo partito è stata la più alta del Parlamento: per chi dell'opposizione all'attuale premier ne ha fatto il punto primo ed ultimo del proprio programma è un risultato gravissimo, ma non inspiegabile.
Se da una parte c'è l'impossibilità di coltivare una classe politica adeguatamente preparata laddove tutto è già scritto, il leader è insostituibile e non c'è discussione interna; dall'altra abbiamo visto allungarsi fetida e maleodorante l'ombra di quella porcata della legge elettorale.
Se un parlamentare incerto della propria riconferma alla prossima tornata elettorale deve il suo scranno ad un segretario piuttosto che al popolo, quel parlamentare, al netto della propria integrità morale (che è comunque un gradino sotto quella del pedofilo, come sosteneva Woody Allen), preferirà andarsi a cercarsi un segretario che gli offra di più o, in mancanza di offerte adeguate, mantenere a galla un governo qualsiasi piuttosto che rinunciare al suo rimborso romano da 20.000 euro mensili esentasse più bonus.

Si è commentato da solo
Il voto di preferenza, pace all'anima sua, legava ogni politico al suo elettore non secondo un vincolo di mandato fortunatamente incostituzionale, ma in base a quel rapporto di fiducia e responsabilità l'uno verso l'altro che ne stabiliva il principale viatico per la riconferma del parlamentare e la rappresentatività del votante.
Abolendo il voto di preferenza è stata intaccata quella forza della nostra democrazia rappresentativa, già così flebile a causa di quel voto di scambio ancora così lontano dall'essere vinto una volta per tutte. Parlare oggi di una riforma elettorale urgente potrebbe essere avvertito come non prioritario rispetto ai problemi reali del Paese. Forse. O forse no: perché tutti i problemi di un'Italia così bistrattata possono riassumersi ed averne la causa principale nella rinuncia spontanea o nella sottrazione dall'alto di quella entità democratica, agli occhi di molti così pallida e sbiadita.

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