Ieri su La7 dopo la visione del film Il Divo - La spettacolare vita di Giulio Andreotti, in seconda serata è andato in un onda un dibattito riguardante il potere in Italia (tranquilli, non ho alcuna intenzione di riassumervelo o aggiungere qualcosa).
Conduceva Enrico Mentana, direttore del tiggì di rete; intervenivano Paolo Mieli ex direttore del Corriere della Sera, Nicola Porro e Marco Ferrante rispettivamente giornalisti per Il Giornale e Il Riformista.
E poi, molto poi, c'era anche Umberto Ambrosoli. Non si sa che lavoro faccia (e di conseguenza neanche da chi venga pagato), non si sa per chi voti come non si sa quale sia il suo orientamento politico. Si sa soltanto che è il figlio di Giorgio Ambrosoli, l'avvocato incaricato di liquidare la Banca Privata Italiana fatto uccidere dal banchiere Sindona. Del padre, a sua volta, già sappiamo tante cose, compresa l'appartenenza ad una destra conservatrice che in Italia, in realtà, non c'è mai stata. Ma di Umberto no, non si sa proprio niente, neanche da dove venga: a sentirlo parlare non sembra neanche di questo Paese.
Interviene per primo, prendendo appena spunto dal film-biografia sul senatore a vita Andreotti, uomo accusato di essere dietro le quinte di tutto ciò che è accaduto in Italia, Guerre Puniche a parte: anche dell'omicidio del padre Giorgio, come esplicitamente insinua la pellicola.
Potrebbe abbandonarsi a qualsiasi rancorosa invettiva contro il sette volte Presidente del Consiglio o chicchessia, supportato da una qualunque tra le tante teorie complottiste fabbricate in questo Paese; e potrebbe farlo senza macchiarsi di quel senso di ridicolo che contraddistingue ad un miglio di distanza i farneticatori tricolori di turno; perché lui, il lutto, l'ha vissuto nella sua famiglia. Ed invece la sua analisi è acuta, tra le sue parole non vi è pontificazione alcuna che non sia stata certificata dalla sentenza di un giudice.
Tutto ciò appare così lontano dalla condotta di quelle fazioni che puntualmente disapprovano i tribunali ancor prima dei processi, che adottano un sistema di giustizia fatto in casa, dove i corrotti saranno espulsi dal partito solo se ritenuti tali dal partito stesso, anche contro una sentenza di primo o secondo grado. Ed altrettanto lontano anche da quella mania del complotto a tutti i costi, che indaga parallelamente su ogni aspetto e su ogni vicenda, italiana e no, sicura che ci sia sempre dell'altro dietro la versione ufficiale.
Patologie che opprimono il nostro Paese, ammesse come plausibili per chi le ha contratte dalla carente efficienza della giurisdizione italiana e dalla lunghissima tradizione di segreti o di inspiegabili verità ufficiali.
Ma c'è una giustificazione che possa valere la quotidiana delegittimazione di coloro che hanno il compito di indagare, giudicare e quanto meno provare a stabilire come stanno realmente le cose?
Mentre cercavo di darmi una risposta, ripensavo alle parole di Brecht: "sventurata la terra che ha bisogno di eroi". E ripensavo a Cuffaro, trattato come un messia per essersi presentatosi al carcere di Rebibbia per scontare una pena di 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. E per chiudere il cerchio, ripensavo nuovamente alle parole di Umberto Ambrosoli: un cittadino come tanti in un Paese con una decente coscienza civile, un alieno sbarcato da chissà dove in Italia.
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