Il primo turno delle elezioni amministrative 2011 segna, al netto di qualsiasi discorso localistico, la sconfitta personale di Silvio Berlusconi.
Il premier c'ha messo la faccia nei due comuni al voto più importanti, due città, Napoli e Milano, tanto diverse tra loro quanto nevralgiche per le macroregioni di cui si ergono a capitale. Ed in entrambi i casi, sebbene la questione non si sia risolta già al primo turno (come nel caso delle altre due maggiori città in gioco in questa tornata, ovvero Torino e Bologna confermate al centrosinistra) e sia ancora possibile una rimonta del centrodestra, il referendum popolare sul premier, sulla sua persona e a debita distanza sul suo operato, ha avuto un risultato negativo.
Il dato di Napoli è se vogliamo il più sorprendente: il centrosinistra negli ultimi 20 anni, tra Capoluogo e Regione, ha fatto di tutto con il mostro a due teste Bassolino-Iervolino per perdere nell'ultimo lustro tutto il consenso guadagnatosi nel decennio precedente. Non stupì nessuno la sonante sconfitta della coalizione di centrosinistra alle Regionali 2009, come non avrebbe stupito nessuno una vittoria al primo turno del candidato sindaco del Pdl Gianni Lettieri. L'emergenza rifiuti e non solo quella erano responsabilità esclusive della classe dirigente partenopea del PD e dei suoi alleati; come se non bastasse il PD è stato coinvolto in uno scandalo elettorale alle primarie che bene non ha fatto all'ambiente. Dunque la logica conseguenza non poteva, anzi, non doveva essere altro che un cambio al timone della città.
Ma qui si intromette il Presidente del Consiglio, che ci mette la faccia ma soprattutto la voce: con i suoi proclami e le sue promesse non mantenute non ha fatto altro negli ultimi tre anni che sottrarre il centrosinistra delle molte e meritate croci della catastrofe sui rifiuti, per puntarle inesorabilmente sulla propria persona e sulla lista che porta il suo nome.
Lettieri è sì il candidato sindaco con più voti del lotto, ma ottiene soltanto con il 38,53% ed andrà al secondo turno con Luigi De Magistris, che con il 27,5% vince la sfida tutta interna al centrosinistra con il piddino Morcone. Vero è che il ballottaggio risulta essere sempre una partita del tutto nuova rispetto alla prima chiamata elettorale, ma ci sono un paio di dati che suggeriscono una posizione di vantaggio per l'ex magistrato dell'Idv.
Il primo è che, per quanto indicativi, sommando le percentuali delle liste del centrosinistra, con il 46,65% dei voti De Magistris potrà partire da un bacino elettorale più cospicuo rispetto a quello del suo concorrente del Pdl. Il secondo dato è quello del cospicuo voto disgiunto che ha visto favorire il candidato dell'Idv (con un differenziale di oltre 10 punti percentuali tra i totali del candidato sindaco ed i totali delle liste collegate) come nessun'altro sulla ribalta nazionale rilevante di questa tornata elettorale.
Milano invece presentava uno scenario molto diverso, per certi versi opposto. La città è indiscutibilmente una roccaforte del centrodestra, ma per quanto gli ultimi cinque anni di gestione da parte di Letizia Moratti siano stati piuttosto discutibili, era difficilmente ipotizzabile un simile sorpasso al primo turno: la candidata del Pdl+Lega si ferma al 41,58%, notevolmente dietro l'esponente del centrosinistra Giuliano Pisapia che raggiunte il 48,04%.
Anche qui Berlusconi ci ha messo tutto sé stesso per spostare quante più luci della contesa possibili sulla sua figura, forse in modo opportunistico visto il malgoverno locale della Moratti, ma dirottandole su una malapolitica ancora più evidente. Dalle polemiche che lo coinvolgevano più o meno direttamente sulle BR nella magistratura alla gaffe della sua candidata nei confronti del suo avversario più accreditato, passando per il proprio nome messo in bella mostra come capolista per i consiglieri comunali, i numeri hanno bocciato il premier, la gestione del suo partito a livello non solo locale ma anche nazionale. E proprio sul numero delle preferenze personali che vi è la debacle più evidente per il Cav., dove dalle 53.000 della scorsa tornata è retrocesso a meno di 28.000 schede che esprimono il suo nome.
La città non è ancora definitivamente persa, al ballottaggio come già detto può accadere ancora di tutto (sebbene i dati dei voti disgiunti non danno buoni indizi per la Moratti, penalizzata anche in questo dato), ma la sconfitta milanese "in sospeso" ha ancora più il sapore della beffa per il PdC se si pensa al fatto che possa avvenire contro la nemesi di quasi tutto ciò che Berlusconi tenta di demonizzare da quando è entrato in politica.
Giuliano Pisapia è infatti un comunista, un giurista, uno scrittore e persino un monogamo. Roba da non crederci.
Confortevolmente Insensibile
...your lips moves but I can't hear what you're saying...
martedì 17 maggio 2011
Analisi Amministrative 2011, part I
martedì 10 maggio 2011
Comitatologia
"I leader della sinistra sono sempre pessimisti, anzi incazzati. Scusate, ma ogni tanto sfodero le lingue e vi faccio vedere che uso l'inglese. Quando loro vanno in bagno, e non è che ci vadano spesso, visto che si lavano poco, e si guardano allo specchio per farsi la barba, si spaventano da soli."
(Silvio Berlusconi, Un comizio a Milano)
"Prima regola del dibattito: mai discutere con uno stupido, la gente potrebbe non notare la differenza."
(Arthur Bloch, La Legge di Murphy)
...e nel caso in cui lo stupido in questione sia il Primo Ministro del tuo Paese che si fa?
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venerdì 6 maggio 2011
Culo e Camicia
La serietà di una classe politica riassunta nello charme di un capo d'abbigliamento.
Roberto Formigoni, Presidente della Regione Lombardia, ieri sera ad AnnoZero |
lunedì 2 maggio 2011
Differenze
sabato 26 marzo 2011
Spot
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domenica 20 marzo 2011
Democrazia™
Giunti al punto in cui i rivoltosi libici non trovano più le forze necessarie per rovesciare il regime di Gheddafi ed instaurare un'imitazione artigianale di quel sistema democratico che tanto piace agli occidentali che fanno il tifo per loro (tranne, è il caso di dirlo, quando si recano a rifornire il serbatoio della propria auto), è arrivato il momento per i supereroi della finanza creativa di scendere in campo per sconfiggere i cattivi ed esportare su nuovi mercati, pardon Paesi, il loro brand(y) più venduto al mondo: Democrazia™*.
Soltanto il 30 agosto scorso, in occasione della giornata dell'amicizia italo-libica, il dittatore del deserto veniva accolto in Italia dal nostro Presidente del Consiglio con tutti gli onori del caso. Ieri, a distanza di neanche un anno (ma che dico? di nemmeno sette mesi), il nostro caro premier che osò baciare la mano di quel criminale, ha messo a disposizione delle forze alleate basi militari e aeroportuali per i bombardamenti su Tripoli. Difesa della popolazione civile è lo scopo ufficiale della missione Odyssey Dawn, come è stata battezzata: ovvero l'unica soluzione possibile tra gli intricati cavilli degli accordi multilaterali in essere, che vietano ingerenze da parte di Stati terzi nei conflitti di attribuzione del potere tra rivoltosi e governo in carica, ma consentono alle altre Nazioni di intervenire in caso di crimini commessi o paventati contro l'umanità.
Prendendo per buono e ammirevole l'obiettivo prefissato dell'intervento e facendo finta di non sapere da dove provengano le armi imbracciate dai ribelli che dall'esercito di Gheddafi, né chi li abbia addestrati, sono tre gli interrogativi che spezzano l'incoerenza delle ragioni interventiste:
Attaccando Tripoli per difendere il diritto alla vita dei civili, alcuni di loro non verranno comunque privati dell'esistenza stessa?
Se è vero che l'obiettivo è di impedire che Gheddafi possa effettuare ritorsioni contro gli insorti, quanto a lungo pensano di dover bombardare quei territori?
Se stanno così a cuore i diritti umani delle popolazioni minacciate dalla guerra, perché le Nazioni Unite non intervengono anche negli altri scenari di emergenza umanitaria?
Io mi rendo conto che le persone pacifiche e non violente di questo mondo debbano essere sempre più costrette a rinchiudersi sull'isola di Utopia, ma non credo sia chiedere troppo ai sanguinolenti di turno di smettere la maschera di ipocrisia dal volto e dire le cose come stanno: petrolio e armi sono i mercati su cui si basa l'intera economia occidentale, perciò non fingete una carità che non vi appartiene ché il mondo, quello che definite barbaro e da civilizzare, vi sarà immensamente grato.
*Democrazia™ è un prodotto Occidente S.p.A.: tutti i diritti sono riservati e protetti da copyright. La riproduzione totale o parziale a scopi non commerciali sarà perseguita secondo i termini di legge.
Ricordarsene prima di dire o fare altri danni |
Prendendo per buono e ammirevole l'obiettivo prefissato dell'intervento e facendo finta di non sapere da dove provengano le armi imbracciate dai ribelli che dall'esercito di Gheddafi, né chi li abbia addestrati, sono tre gli interrogativi che spezzano l'incoerenza delle ragioni interventiste:
Attaccando Tripoli per difendere il diritto alla vita dei civili, alcuni di loro non verranno comunque privati dell'esistenza stessa?
Se è vero che l'obiettivo è di impedire che Gheddafi possa effettuare ritorsioni contro gli insorti, quanto a lungo pensano di dover bombardare quei territori?
Se stanno così a cuore i diritti umani delle popolazioni minacciate dalla guerra, perché le Nazioni Unite non intervengono anche negli altri scenari di emergenza umanitaria?
Io mi rendo conto che le persone pacifiche e non violente di questo mondo debbano essere sempre più costrette a rinchiudersi sull'isola di Utopia, ma non credo sia chiedere troppo ai sanguinolenti di turno di smettere la maschera di ipocrisia dal volto e dire le cose come stanno: petrolio e armi sono i mercati su cui si basa l'intera economia occidentale, perciò non fingete una carità che non vi appartiene ché il mondo, quello che definite barbaro e da civilizzare, vi sarà immensamente grato.
*Democrazia™ è un prodotto Occidente S.p.A.: tutti i diritti sono riservati e protetti da copyright. La riproduzione totale o parziale a scopi non commerciali sarà perseguita secondo i termini di legge.
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giovedì 17 marzo 2011
150 anni e non sentirli
Non ho mai condiviso l'esaltazione generale per le cifre tonde: sono utili, certo, soprattutto quando arrivi alla cassa del supermercato, ma non ho mai compreso, e di certo non lo comprenderò oggi, perché un anniversario giunto ad un numero di anni che finisce con 0 debba essere ricordato con più vigore del solito. D'altronde non ho neanche mai compreso perché di qualsiasi evento, bisogna ricordarsene soltanto quando arrivano date prestabilite.
Soltanto lo scorso anno potevamo notare come i balconi delle nostre case sfoggiassero un numero maggiore di tricolori durante le settimane dei mondiali in Sudafrica, piuttosto che durante la Festa della Repubblica: essere italiani di questi tempi è davvero difficile.
Oltre ad amare le terre dove sei nato e/o cresciuto, oltre ad elogiare la lingua che parli, oltre ad ammirare l'arte ed i paesaggi che ti circondano, oltre a degustare la cucina, conservare e ricordare i costumi e le tradizioni dei tuoi avi, oltre a tifare per la nazionale di calcio anche quando ci sono in campo Pepe e Iaquinta, la Patria ti chiede un ultimo sforzo: quello di sentirsi italiano.
Uno sforzo faticoso, costrittivo, quantunque inutile: perché rivendicare qualcosa che hai già, qualcosa che per fortuna o purtroppo sei già? Essere una nazione è alla base dell'autodeterminazione di ogni popolo che diventa Stato, come successe agli italiani esattamente 150 anni fa; ma sentirsi una nazione a cosa serve? Troppe volte nel corso dei secoli il sentimento nazionalista, dietro al quale si nascondeva puntualmente il bieco calcolo dei potenti, è stato il vero oppio somministrato ai popoli per trascinare gli eserciti in futili guerre.
Il nazionalismo accentua le differenze, ci mettere sulla difensiva, ci rende aggressivi ed oggi più che mai, in un mondo globale e - nel bene e nel male - globalizzato, è un errore in cui non si può più cadere.
Perciò oggi come ieri e come lo scorso anno, d'estate sdraiato sul lettino in spiaggia o d'inverno seduto sui gradini del centro con la faccia al vento, mi ritengo fortunato di essere nato e cresciuto in Italia, grato di essere un italiano libero di non doversi sentire chissà cosa per essere più felice.
Auguri Italia.
Soltanto lo scorso anno potevamo notare come i balconi delle nostre case sfoggiassero un numero maggiore di tricolori durante le settimane dei mondiali in Sudafrica, piuttosto che durante la Festa della Repubblica: essere italiani di questi tempi è davvero difficile.
Oltre ad amare le terre dove sei nato e/o cresciuto, oltre ad elogiare la lingua che parli, oltre ad ammirare l'arte ed i paesaggi che ti circondano, oltre a degustare la cucina, conservare e ricordare i costumi e le tradizioni dei tuoi avi, oltre a tifare per la nazionale di calcio anche quando ci sono in campo Pepe e Iaquinta, la Patria ti chiede un ultimo sforzo: quello di sentirsi italiano.
Uno sforzo faticoso, costrittivo, quantunque inutile: perché rivendicare qualcosa che hai già, qualcosa che per fortuna o purtroppo sei già? Essere una nazione è alla base dell'autodeterminazione di ogni popolo che diventa Stato, come successe agli italiani esattamente 150 anni fa; ma sentirsi una nazione a cosa serve? Troppe volte nel corso dei secoli il sentimento nazionalista, dietro al quale si nascondeva puntualmente il bieco calcolo dei potenti, è stato il vero oppio somministrato ai popoli per trascinare gli eserciti in futili guerre.
Il nazionalismo accentua le differenze, ci mettere sulla difensiva, ci rende aggressivi ed oggi più che mai, in un mondo globale e - nel bene e nel male - globalizzato, è un errore in cui non si può più cadere.
Perciò oggi come ieri e come lo scorso anno, d'estate sdraiato sul lettino in spiaggia o d'inverno seduto sui gradini del centro con la faccia al vento, mi ritengo fortunato di essere nato e cresciuto in Italia, grato di essere un italiano libero di non doversi sentire chissà cosa per essere più felice.
Auguri Italia.
venerdì 11 marzo 2011
Quando la terra trema
Quando accadono catastrofi come quella che ha colpito oggi il Giappone, non si può non rimanere basiti dinanzi alla tragicità delle vite spezzate da un momento all'altro, per quanto più o meno numerose possano essere; ma allo stesso tempo non ci si può esimere dal considerare che quelle morti non sono causate dall'arbitrarietà degli eventi naturali. O almeno non direttamente.
Nella stragrande maggioranza dei casi, le morti avvenute durante un terremoto sono dovute ai crolli e ai cedimenti delle costruzioni artificiali, pertanto solo indirettamente è responsabile la mano di madre natura mentre il primo colpevole della sua sorte, per quanto in buonafede, è l'uomo con il suo insediamento.
C'è di più: il fattore di imprevedibilità degli eventi sismici è realmente tale solo per metà: se da una parte è vero che il progresso tecnologico non ci permettere ancora oggi di conoscere per tempo quando avverranno tali fenomeni, dall'altra parte è altrettanto acclamato che gli studi scientifici ci permettono oggi di sapere zona per zona ed in modo dettagliato, seppur entro certi limiti, quali sono i territori a maggior rischio sismico.
E se pure non bastasse la ricerca sismografica, rimarrebbe pur sempre utile l'esperienza storica. In Giappone sono consapevoli della pericolosità della terra in cui vivono e delle acque su cui affacciano le loro città ma non si sottomettono allo spauracchio della natura matrigna e non si rassegnano all'imperscrutabilità degli eventi ambientali.
Il paragone con il Giappone sull'adeguatezza delle misure antisismiche nel territorio italiano fu sulla bocca di tutti l'indomani del 6 Aprile di due anni fa, giorno della tragedia dell'Aquila. Quella che ci ha svegliato stamane potrebbe essere la tristissima conferma dell'arretratezza del nostro Paese rispetto ad un altro che, esattamente come noi, è a forte rischio sismico ed è inserito tra gli otto Stati più sviluppati del pianeta.
La differenza di tre gradi fatta segnare sulla scala Richter dal terremoto che colpì la provincia aquilana (5,9) ed il cataclisma di oggi a Sendai (8,9), combinata al numero di vittime registrate (308 in Abruzzo, fortunatamente ancora sotto il centinaio tra le coste giapponesi sul Pacifico), rendono ancor più l'idea di quanti progressi.
La tristezza della catastrofe di oggi fa riaffiorare i brutti ricordi di due anni fa, lo sdegno per le risate di chi avrebbe approfittato di quello stato di emergenza nazionale e soprattutto lo sgomento per il pragmatismo da quattro soldi con il quale la nostra classe dirigente affronta la questione dell'adeguamento antisismico: intervenire dopo una tragedia in una zona circoscritta del Paese costa meno di una progetto di riqualificazione su tutto il territorio prima che il disastro avvenga. Semplicemente mostruoso.
Infine ci sarebbe da parlare dei rischi per le centrali nucleari in casi di eventi del genere, che il governo italiano sembra prendere del tutto alla leggera: ma questa è un'altra storia.
lunedì 28 febbraio 2011
Nel Continente Rosso
Più scene vedo arrivare dalle piazze nordafricane in fervore e più si fa strada in me l'amarezza di come certi accadimenti, identici nei loro connotati come solo la morte sa essere uguale per tutti, possano essere trattati in maniera completamente diversa.
L'Africa è un continente immenso: sarebbe sufficiente prendere una qualsiasi cartina geografica per accorgersene, allo stesso modo come basterebbe leggere un po' in giro per sapere quanti focolai di guerra insanguinano quei territori. Ma l'Occidente, si sa, ha per occhi due binocoli, che esplorano ogni cosa presente in quei cerchi di terra dove punta il suo sguardo, e che non riescono a guardare oltre le circonferenze di quel paio di lenti.
Chiarisco: io non voglio spacciarmi per fine conoscitore della storia geopolitica africana, ché bastano già i tanti finti esperti usciti alla ribalta nelle scorse settimane. E non voglio nemmeno correre l'errore di sottovalutare l'importanza delle rivolte che stanno mettendo fine ai regimi antidemocratici in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Marocco e chissà dove altro ancora.
Però ci sono altri Stati africani devastati da conflitti in quello stesso continente, molti dei quali confinanti con gli stessi Paesi che si sono guadagnati le prime pagine di politica internazionale nell'ultimo mese: il Ciad, per fare un esempio e dal quale stanno emigrando in massa verso l'Europa, o il Sudan, fresco di una secessione che difficilmente appianerà tutti i dissidi. Poi ci sono l'Etiopia, il Senegal, l'Uganda, per non parlare della Somalia che da anni è senza un qualsivoglia governo; e ancora purtroppo tante altre guerre civili che rendono l'intero continente non nero come raccontano nei libri e nelle canzoni, bensì rosso, anzi vermiglio.
Non voglio fare la morale a nessuno, perché per quello già bastano quei 30 secondi di pubblicità progresso che arrivano di tanto in tanto nelle nostre case tramite la televisione, magari a ora di pranzo facendo finta di levarci l'appetito.
Volevo solo notare come nel mondo globalizzato del terzo millennio, ancora non si riesce ad arrivare con lo sguardo oltre la riva posta di fronte al mare che bagna la nostra penisola.
Ma mi facessero il piacere.
L'Africa è un continente immenso: sarebbe sufficiente prendere una qualsiasi cartina geografica per accorgersene, allo stesso modo come basterebbe leggere un po' in giro per sapere quanti focolai di guerra insanguinano quei territori. Ma l'Occidente, si sa, ha per occhi due binocoli, che esplorano ogni cosa presente in quei cerchi di terra dove punta il suo sguardo, e che non riescono a guardare oltre le circonferenze di quel paio di lenti.
Chiarisco: io non voglio spacciarmi per fine conoscitore della storia geopolitica africana, ché bastano già i tanti finti esperti usciti alla ribalta nelle scorse settimane. E non voglio nemmeno correre l'errore di sottovalutare l'importanza delle rivolte che stanno mettendo fine ai regimi antidemocratici in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Marocco e chissà dove altro ancora.
Però ci sono altri Stati africani devastati da conflitti in quello stesso continente, molti dei quali confinanti con gli stessi Paesi che si sono guadagnati le prime pagine di politica internazionale nell'ultimo mese: il Ciad, per fare un esempio e dal quale stanno emigrando in massa verso l'Europa, o il Sudan, fresco di una secessione che difficilmente appianerà tutti i dissidi. Poi ci sono l'Etiopia, il Senegal, l'Uganda, per non parlare della Somalia che da anni è senza un qualsivoglia governo; e ancora purtroppo tante altre guerre civili che rendono l'intero continente non nero come raccontano nei libri e nelle canzoni, bensì rosso, anzi vermiglio.
Non voglio fare la morale a nessuno, perché per quello già bastano quei 30 secondi di pubblicità progresso che arrivano di tanto in tanto nelle nostre case tramite la televisione, magari a ora di pranzo facendo finta di levarci l'appetito.
Volevo solo notare come nel mondo globalizzato del terzo millennio, ancora non si riesce ad arrivare con lo sguardo oltre la riva posta di fronte al mare che bagna la nostra penisola.
Ma mi facessero il piacere.
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